Sabina Berretta, da Catania ad Harvard : “Non fatevi dire di no”.

In Italia, essere giovani ed aver studiato rischia, spesso, di diventare più un problema che una soluzione. Questa è, purtroppo, la realtà con cui ci scontriamo sempre più di frequente e con cui i nostri laureati imparano a proprie spese a fare i conti. È così che ogni anno un numero sempre maggiore di giovani più che qualificati lascia il proprio paese in cerca di condizioni migliori in cui vivere e lavorare. Sabina Berretta è una di loro, ha lasciato Catania ormai parecchi anni fa per raggiungere gli Stati Uniti e lì raggiungere obiettivi che in patria le sarebbero stati preclusi. Nelle ultime settimane, la sua storia ha trovato spazio sui mass media, con particolare riferimento ad un episodio imbarazzante di cui è stata vittima negli ultimi anni di permanenza in Italia.
Se altri si sono chiesti cosa l’Italia non le abbia dato, noi di Social Up ci siamo chiesti cosa l’Harvard Medical School le ha dato e cosa il nostro paese può ancora dare ai suoi giovani e glielo abbiamo chiesto direttamente con poche domande, accolte con apertura e disponibilità che vi proponiamo qui di seguito.

Sappiamo che ricopre un ruolo di primaria importanza presso la Harvard Medical School, una posizione di grande prestigio, ma dietro al successo c’è anche tanta fatica. Com’è essere lei?

Essere me non è niente di speciale. Come tanti altri ricercatori, dovunque lavorino, amo il mio lavoro, e quindi lavoro duro, e con passione. In Italia, sono finita sui giornali di recente, un po’ per caso, per via di una storia sulla mia carriera, quella della bidella mancata, che diciamolo pure, è un po’ ridicola, ma allo stesso tempo rappresenta la storia di tanti in Italia che hanno scelto di andare all’estero pur di poter fare ricerca. Moltissimi sono poi rimasti e certamente io non sono fra quelli che hanno avuto più successo.
Fare ricerca negli US non è facile, ma è possibile. I posti di ricerca sono molto competitivi e i fondi necessari molto difficili da ottenere. Come tanti altri, ho avuto momenti in cui non sapevo se ce l’avrei fatta, in cui non avevo più fondi ed ero sola in laboratorio chiedendomi cosa avrei fatto se le richieste di finanziamento su cui stavo lavorando non avessero avuto successo. In qualche modo, fino ad ora, è andata bene. È un lavoro che ti insegna ad avere la pelle un po’ dura, a non scoraggiarsi quando una richiesta di finanziamenti non è approvata, o un lavoro non viene accettato per la pubblicazione. Mio padre mi diceva sempre che essere testarda (come un mulo) è il mio difetto più grande e il mio migliore pregio. Credo che sia vero per tutti i ricercatori, che siano all’estero o no.
È importante che dica qualcosa sull’essere donna nel mondo della ricerca. Negli US, come in altre parti del mondo, non è facile per una donna fare ricerca.Certamente, le cose sono migliorate molto dai tempi di mia madre, quando le fu detto chiaro e tondo che non le avrebbero dato un posto di ricercatrice retribuito, nonostante l’esperienza e le pubblicazioni, perché i ricercatori uomini avevano bisogno di un posto di lavoro per potere avere famiglia, mentre lei si sarebbe sposata e non avrebbe avuto bisogno di uno stipendio. Non è più così, ma anche adesso non è facile. Per esempio, ci sono tante donne quanto uomini ai livelli junior della ricerca, ma ai livelli più alti noi donne ci ritroviamo spesso sole in una stanza piena di uomini e non c’è dubbio che i loro stipendi siano più alti a parità di livello.

Alle mie colleghe, particolarmente quelle più giovani, vorrei ricordare di non scoraggiarsi. Anzi, ricordiamocelo a vicenda, di esigere sempre quello di cui abbiamo bisogno per fare la migliore ricerca possibile, di non arrenderci e di credere nelle nostre capacità, nel fatto che il nostro meglio ha lo stesso valore del meglio dei nostri colleghi.
Da un punto di vista personale, è vero che lavoro molto, che a volte le mie notti durano solo 3 o 4 ore, e che per la maggior parte non smetto mai di lavorare. Ma faccio anche altre cose, vedo amici, un po’ di attivismo politico. E ho famiglia, un marito meraviglioso e molto comprensivo che fa più lavoro a casa di quanto ne faccia io, e due figli, Giuliano e Ilyan, i miei due più grandi successi e felicità. Certamente trovo il tempo per loro e, da quando erano piccoli, ho imparato due cose importanti: la prima è di non sentirmi colpevole per il tempo passato lontano da loro quando sono al lavoro, perché per amarli, dargli coraggio e confidenza in se stessi, devo essere capace di fare lo stesso per me; la seconda è che è importante accettare con serenità che il proprio lavoro è spesso rallentato quando si hanno dei figli. Questo ovviamente è vero per tutti i genitori, ma è spesso difficile ricordarselo quando finire oggi quell’ultimo esperimento sarebbe così importante, ma non è possibile perché aiutare i miei figli a fare i compiti è ancora più importante.

Durante le ultime settimane, la sua storia è stata al centro del dibattito mediatico in qualità di esempio delle “sorti dei cervelli italiani”, osannati all’estero per le loro qualità, odiati e bistrattati in patria. Le sue interviste hanno suscitato ammirazione nei suoi confronti, ma anche qualche polemica. Cosa ne pensa? Quanto la risposta che, in qualche modo, le hanno dato gli italiani va nella direzione che lei si aspetta per il nostro paese e per i suoi giovani?

La questione della scienza in Italia, e dei cosiddetti “cervelli in fuga”, o forse meglio “cervelli in esilio”, è complessa. Penso non ci sia dubbio che il contributo alla società della scienza, particolarmente la scienza moderna, è un contributo a livello globale. I benefici della ricerca scientifica devono contruibuire al benessere di tutti i cittadini del mondo. Per esempio, se io, nel mio piccolo, riuscissi a contribuire ad implementare gli attuali approcci terapeutici alla schizofrenia, questi miglioramenti sarebbero di aiuto a tutti coloro che soffrono di questa terribile malattia, che essi vivano negli US, in Italia o in qualunque altra parte del mondo. In questo senso, è dovere mio e di tutti i ricercatori fare la migliore ricerca possibile e, quindi ,di andare a lavorare dove ci sono le migliori possibilità di attuarla. Nello stesso senso, è dovere di ogni paese, creare condizioni e strutture che permettano ai ricercatori di lavorare al meglio possibile. A qualunque ricercatore, perché la scienza ha bisogno di diversificazione, di idee nuove, e deve permettere ai migliori in ogni campo di lavorare dovunque le loro capacità possono essere usate al meglio. Un esempio è certamento quello dei problemi ambientali, del climate change. Si tratta di problemi complessi, che possono essere affrontati solo se tutti i paesi del mondo lavorano insieme, collaborando in maniera costruttiva; vale lo stesso per il resto della ricerca scientifica.
Noi che abbiamo lasciato l’Italia per andare a lavorare all’estero, abbiamo semplicemente cercato di fare la ricerca migliore possibile. Andiamo via perché non abbiamo lavoro, non torniamo perché scegliamo il posto che ci dà le migliori possibilità di lavorare. Ci viene rimproverato che non rimaniamo a lottare per il nostro paese. Forse, ma se al meglio della nostra ricerca contribuiremo, anche in misura minuscola, alla conoscienza scientifica, il nostro paese sarà fra i beneficiari. Aiutiamo la ricerca anche insegnando a ricercatori più giovani, provenienti dal nostro paese e da altri. Questa è una responsabilità che tutti noi abbiamo, nella speranza che diventino più bravi di noi e riescano dove noi abbiamo fallito.
Le risposte che ho ricevuto, da tantissimi giovani che mi hanno scritto, riflettono speranza,  ambizione e determinazione, il meglio che ci si potrebbe aspettare, ma anche scoraggiamento e frustrazione. Molti mi hanno chiesto consiglio, su come fare a sviluppare la loro passione per la ricerca, come farla diventare una carriera e una vita dedicata alla scienza. Mi duole di non aver saputo come rispondere, avere offerto un po’ di incoraggiamento non è certo abbastanza.

Spesso, parlando dell’Italia, la si definisce un po’ come l’Università mondiale: un luogo in cui i giovani studiano, approfondiscono, si preparano in modo spesso eccellente per poi andare ad arricchire ed arricchirsi in altri paesi. Cosa pensa dell’Università italiana? Riesce ancora a preparare grandi scienziati?

Senza dubbio. I giovani ricercatori che arrivano dall’Italia sono spesso eccezionali. La premessa che l’Italia li prepara e loro vanno ad arricchire, e arricchirsi, in altri paesi è come minimo offensiva. Per le ragioni che ho detto prima: primo, perché la ricerca scientifica contribuisce al progresso di tutta l’umanità, non solo del paese che la sostiene; secondo, perché i giovani vanno via perché in Italia non trovano un lavoro adeguato dopo la laurea.

L’appello di Sabina Berretta ai giovani

Qual è, a suo parere, il limite dell’Italia? Perché non riesce a guardare al futuro e ad i giovani?

Sono stata via da troppo tempo per rispondere in maniera concreta e sensibile. L’Italia ha una tradizione accademica e scientifica antica e di grandissimo valore. Non c’è dubbio che quei gruppi di ricerca in Italia che hanno la possibilità di fare ricerca, sono rispettatissimi a livello internazionale e fanno ricerca a livello mondiale. Purtroppo, le possibilità sono molto limitate e la struttura della ricerca è spesso antiquata, rigida, con poche possibilità di movimento fra gruppi di ricerca, di assumere rapidamente giovani ricercatori più adatti a progetti di ricerca specifici e di prepararli a lavorare indipendentemente.

Attrarre Cervelli dall’estero o incentivare quelli italiani a restare, quale dovrebbe essere la priorità?

Non credo che ci sia una scelta fra le due possibilità. Creare una struttura fluida, adattabile, che dia le migliori possibilità di condurre ricerca a livello internazionale a tutti coloro che ne hanno le capacità e la passione, che prepari bene i giovani, dia risorse a coloro che dimostrano produttività e determinazione e aiuti a diversificare gli approcci alla ricerca, così che diverse abilità e competenze trovino sbocchi. Se tutto questo fosse possibile, molti resterebbero, o ancora meglio andrebbero all’estero e tornerebbero, e ricercatori provenienti da altri paesi verrebbero ad arricchire la ricerca italiana con nuove idee e culture. Uno dei tanti motivi per cui io ed altri esitetiamo a tornare in Italia: la diversità di culture, etnica, di modi di pensare a cui adesso siamo abituati ci mancherebbe, una diversità che è essenziale alla ricerca.

Parliamo un po’ di Scienza. Social Up si è occupata più volte di malattia mentale e disfunzioni neurologiche. In che direzione stiamo andando? Ci sono nuove speranze per i pazienti che combattono contro molte di queste patologie, spesso invalidanti e senza cura?

Viviamo in un momento prodigioso per la ricerca sulle malattie del cervello. Nuove tecnologie vengono sviluppate rapidissimamente, con potenziali enormi; le usiamo già, ma ci sembrano ancora fantascienza e migliorano continuamente. Ci danno la possibilità di studiare queste malattie a livello molecolare, cellulare, genetico e di vedere il cervello in funzione in modi che pochi anni fa non ci saremmo immaginati. Queste tecnologie, e le scoperte che ci stanno permettendo, portano un certo ottimismo, che deve essere però temprato nel contesto della complessità di queste malattie. La maggior parte delle malattie psichiatriche, per esempio, hanno componenti genetiche molto complesse, che interagiscono con fattori ambientali in maniera che stiamo solo ora cominciando a capire. Molte di queste malattie non possono essere curate, almeno non al momento, ma la speranza è di continuare a capire meglio le loro cause, i cambiamenti che causano nel cervello e spesso a livello sistemico e,  poi, come creare delle strategie terapeutiche più efficienti e specifiche per ogni persona.

Social Up è l’idea di un gruppo di giovani e si rivolge, in larga parte, ai giovani. Ha un consiglio per la nostra redazione e per i nostri lettori?

Ce ne sono un po’ sparsi nelle miei risposte, spero che siano utili. Si dice “va’ dove ti porta il cuore”, il titolo di un libro bellissimo di Susanna Tamaro che mia madre mi regalo’ quando partii per gli Stati Uniti. Do lo stesso consiglio: andate dove vi porta il cuore, o dove vi porta la vostra passione, che sia per la ricerca, la conoscenza, l’arte… Siate coraggiosi, ascoltate i consigli delle persone fidate, ma non fatevi dire di no, non fermatevi.

Cosa aggiungere? Il “Non fermatevi” di Sabina Berretta è forse il consiglio migliore e più sincero che potevamo aspettarci. Non resta che continuare a camminare e raggiungere la vetta più alta che ci si è prefissati.

Silvia D'Amico