Renato Pozzetto, Il ragazzo di campagna nella Milano da bere

“Del passato dovremmo riprendere i fuochi e non le sue ceneri”, scriveva Jean Jaurès. Quest’aforisma aderisce perfettamente a chi sente ancora la passione del vivere a discapito dei ricordi negativi, a un uomo come Renato Pozzetto, ad esempio, che a 78 anni compiuti rimescola i tizzoni del suo passato oltre la superficie, ma senza alcun rimasuglio di rimpianto. Oggi, ancora ricordato dal pubblico, non solo quello degli anni Settanta e Ottanta, per la sua poliedricità artistica nelle vesti di attore, regista, cabarettista, cantante e sceneggiatore, vive in piena pace con sé stesso perché ha conquistato la serenità necessaria per godere dell’ambiente natio circondato e cullato dal calore degli affetti famigliari. I fantasmi della vecchiaia non turbano affatto la giovinezza interiore che gli è sempre appartenuta e con cui ha convissuto abbastanza bene al punto tale da credere, oltre ogni dubbio, a un ineluttabile fatalismo per cui alla fine il destino restituisce ciò che toglie.

Così il racconto della sua vita, diventa una fiaba moderna dove vivono personaggi particolari che, con nonchalance, esprimono imperturbabili comportamenti strambi e che quasi trasparenti, come sospesi in una nuvola di leggerezza, dietro la maschera ingenua della semplicità, nascondono l’arguzia necessaria per mettere in discussione il serioso mondo di certi opportunisti. È anche una storia di profonda umanità in cui la bontà del sentimento sostiene con sottile garbo l’incontenibile vena corrosiva di momenti dissacratori.

Nato a Laveno-Mombello il 14 luglio 1940 da una coppia di onesti ma non certo facoltosi lavoratori che per sfuggire ai bombardamenti su Milano sfollarono a Gemonio nel Varesotto, il piccolo Renato era un figlio della guerra che crescendo s’accorse di essere molto, ma molto creativo. Un bambino che per essere felice cominciò a giocare con le parole perché aveva sofferto la fame e imparato a fare i conti con le rinunce. Questa fame di desideri compensata dal suo spiccato umorismo era il suo unico divertimento che diventò allegra condivisione quando un bel giorno incontrò un altro bambino anch’esso avido di cercare svago nella fantasia: si chiamava Cochi Ponzoni e i due birichini vissero con assoluta spensieratezza quel periodo delicato accomunati da un innato senso dell’ironia e sviluppando al contempo una spontanea giovialità segnale intellegibile di una rara e dunque preziosa amicizia. Passa il tempo per quel giovane che ha avuto solo pochi momenti di felicità ma, rimasto intriso di sana giovialità, quasi dimentica la fatica necessaria per ottenere il diploma di Geometra, indugiando voluttuosamente sul suo spensierato bighellonare tra i cantieri affascinato dalle gru e dalle ardite forme di costruzioni a quel tempo avveniristiche. Svolge per qualche tempo la professione ma poi capisce che il suo posto è là e si dirige altrove da tutt’altra parte: esente dal servizio militare comincia a fare il saltimbanco con l’amico d’infanzia. Siamo nel 1964 e con l’indivisibile Cochi debutta all’Osteria dell’Oca. Visti i buoni risultati della serata, i due decidono di fare coppia fissa creando il duo Cochi e Renato. Mesi più tardi, vengono invitati a esibirsi al Cab 64, dove conosceranno altri artisti come Enzo Jannacci, Felice Andreasi, Bruno Lauzi e Lino Toffolo con i quali costituiranno Il Gruppo Motore e grazie ai quali arriveranno a esibirsi al Derby di Milano.
Pozzetto, naturalmente dotato di un umorismo surreale, affascina e diverte la platea ben spalleggiato dalla sottile perfidia comica di Cochi: i due inventano a più non posso numerose gag affidandole a personaggi strampalati che parlano un linguaggio diverso e originale in cui l’uno dai lineamenti delicati si propone asciutto e pedante mentre l’altro si mostra con quel faccione così particolare che esprime una mimica riconoscibilissima. Nascono così tormentoni particolari tipo “Eh la Madonna” e “Taaac e fuoriesce il divertimento allo stato puro delle canzoni:” La gallina”; “Bella bionda”; “La vita l’è bella”; “Nebbia in val padana” e “Canzone intelligente” che, per il loro finto contenuto bislacco altresì divertente sono ancora tuttora considerate dei veri e propri cult musicali.

Ormai i loro sogni si sono trasformati in realtà e così anche la RAI li mette nel mirino invitandoli a esibirsi davanti alle telecamere. In brevissimo tempo, fra il 1968 e il 1974, diventano non solo ospiti, ma anche conduttori di programmi (“La domenica”, “Il buono e il cattivo”, “Il poeta e il contadino – L’incontro che non doveva avvenire”, “Canzonissima”). Il successo straordinario di questi programmi e la voglia di nuove frontiere, porta i due, specie Pozzetto, alla scelta di separarsi per proseguire in proprio la carriera artistica.
Intorno alla metà degli Anni Settanta, avviene il suo debutto cinematografico in coppia con la sempre verde Giovanna Ralli nel film” Per amare Ofelia” (1974), che lo confermerà un ottimo e convincente attore, tanto da meritarsi nel 1975 un David di Donatello Speciale per il nuovo tipo di umorismo espresso nelle sue performances e un Nastro d’Argento come miglior attore esordiente. Seguirà a cascata un fitto scroscio di film che riverseranno a pioggia sugli schermi italiani la novità assoluta di una diversa angolazione della commedia italiana: “Oh Serafina” (1976) regista Lattuada in cui ricco, puro e casto finisce interdetto in manicomio dove s’innamora della poetica bellezza di Dalila Di Lazzaro; poi ineffabile e disinvolto interpreta lo svaporato poliziotto privato del film ”Agenzia Riccardi Finzi praticamente detective” (1979) e infine con molta padronanza del ruolo assume la posa giusta in “La patata bollente” (1979) di Steno, impersonando un duro che ha il suo bel da fare per contenere la strepitosa avvenenza di Edvige Fenech poiché distratto dalla femminea fragilità del bravo Massimo Ranieri. Il nuovo decennio si apre con un invitante tris di titoli di buona qualità: il fantastico “Mia moglie è una strega”, assieme alla sorprendente Eleonora Giorgi; l’amaro “Io sono fotogenico “di Dino Risi sempre con la conturbante Fenech; e il beffardo “Fico d’India”, partner la flessuosa Gloria Guida e il brillante Aldo Maccione. A metà di quegli anni gira il suo film più famoso “Il ragazzo di campagna”, mentre l’anno dopo è sul set dello scoppiettante “E’ arrivato mio fratello” (1985). Ma tra tutti questi film il più interessante forse rimane, “Da grande” (1987) che, oltre a candidarlo a un Nastro d’Argento come miglior attore protagonista, ispira col soggetto e la sceneggiatura la regista Penny Marshall e i suoi collaboratori a elaborare una trama simile per il film “Big” (1988), protagonista Tom Hanks. Nel 1987, firma e interpreta un film difficile:” Il volatore di aquiloni”, una sorta di commedia-documentario sulla Milano de bere degli anni 80 che però non trova grande riscontro di pubblico. Ancora qualche altro buon film tipo “Le comiche”’; “Piedipiatti”; Le nuove comiche “e nel 1996, arriva il poco convincente” Papà dice messa” basato principalmente sull’estro di Teo Teocoli in versione travestito.

Pozzetto si era nel frattempo cimentato anche nelle sceneggiature collaborando con registi italiani del periodo come Salvatore Samperi (Sturmtruppen), Sergio Corbucci (Questo e quello) Steno (Mani di fata), Pasquale Festa Campanile (Nessuno è perfetto, Culo e camicia, Un povero ricco) e con Nanni Loy (Testa o croce). Mentre da regista aveva cominciato nel 1978, apparendo anche come attore assieme al bravo Cochi e alla burrosa Angela Luce, in un boccaccesco episodio di” Io tigro, tu tigri, egli tigra” incentrato sull’odio famigliare. Scommette con qualche perdita sull’ambizioso progetto di” Saxphone”(1978), un film per niente scontato, ma dai contenuti abbastanza radical chic in cui si narra di una moglie confusa e infelice (una Mariangela Melato sempre in tono) che cerca una nuova filosofia di vita nelle parole di uno stravagante personaggio, lo stesso Pozzetto, che va in giro con un sax suonando un motivo del geniale Jannacci. Questo film come il precedente viene impietosamente stroncato dalla critica del tempo forse un po’ troppo bacchettona che però nulla toglie al suo assodato e consistente valore artistico, nonostante nel 2007 egli replichi il flop imbattendosi in un altro intricato adattamento cinematografico di un libro “Un amore su misura” scritto dallo psichiatra Vittorino Andreoli.

Ma per quelli come, lui toccati dalla grazia ricevuta in forma di creatività, il cielo è sempre più blu. Infatti dopo un periodo di oblio alla fine degli Anni Novanta, per un cambiamento di gusti cinematografici da parte del pubblico, nel 2000, torna in coppia con Cochi sia teatro che in televisione: saranno infatti ospiti speciali del programma “Zelig”. Nel 2013, ritorna nel piccolo schermo come protagonista della fiction Casa e bottega e nel 2015, è nel cast del film Ma che bella sorpresa di Alessandro Genovese, Riappare sulla scena del teatro Manzoni di Busto Arsizio, Il 3 marzo 2017 con lo show” Siccome l’altro è impegnato” dove l’altro non può che essere Cochi Ponzoni, lo storico partner con cui ha condiviso molti anni di carriera segnando un’epoca. Lo spettacolo, sesto appuntamento della rassegna teatrale” Mettiamo in circolo la cultura” ideato da Maria Ricucci coinvolge personaggi noti come, Sebastiano Somma, Enzo De Caro e Amanda Sandrelli. Una imperdibile occasione buona per il nostalgico Renato Pozzetto di ripercorrere una fortunata carriera durata più di cinquanta anni tra i quali dieci di cabaret, quindici di teatro e trenta di cinema per un cospicuo totale di sessanta film, tutti condivisi a vario titolo con i capataz dello spettacolo. Personaggi del calibro di Adriano Celentano, Nino Frassica Massimo Boldi, Paolo Villaggio, Carlo Verdone , Lino Banfi ed Enrico Montesano per la parte maschile e delle superbelle, oltre alle succitate Fenech, Guida, Di Lazzaro e Melato, Ornella Muti, Agostina Belli, Laura Antonelli, Stefania Casini, Janet Agren, Claudia Koll e Francesca Dellera.

E se è vero com’è vero che essere naturalmente semplici è una delle cose più dannatamente difficili, specie nel mondo dello spettacolo, a Renato Pozzetto che ha incarnato come pochi la soave leggerezza di cui si tinge il colore dell’ottimismo, si dovrebbe assegnare a honorem un premio speciale che consideri questa qualità una variazione artistica di gran pregio.

Vincenzo Filippo Bumbica