Piero Salabè e la sua poesia fino all’osso

«(…) mia unica e nemica pelle/ mi separi/ dal silenzio grande/ dell’eternità».

La pelle, secondo i versi di una splendida lirica di Piero Salabè, permette il contatto con l’eternità e al contempo ne impedisce il dissolversi in essa. Così la lingua, il sottile confine tra l’Io e il Tutto. La comunicazione che ci permette di associarci a qualcosa di più grande, ma che contemporaneamente ci permette di distinguerci l’uno dall’altro.

Barriera, la lingua è pure la sua trasgressione: «(…) nel tuo suono/ più oscuro/ nel lontano vociare/ io ascolto/ innamorato/ quello che non potrò/ mai dire». E quel fosco suono ha una sola chiave di lettura, un solo linguaggio costituito da ciò che in realtà scritto non è: la poesia.

Scrigno di questi versi è un canzoniere ancora inedito di Pietro Salabè, Un bel niente, che comprende due raccolte: La lingua taciuta e Aguamarga. Un poema che va fino all’osso delle parole, che scortica il contenuto superfluo per arrivare al nucleo fondante, delle pietre dure, diamanti tagliati in maniera perfetta e violenta.

Germanista, autore di saggi sull’orientalismo nella letteratura tedesca, da alcuni anni figura di rilievo nell’editoria tedesca, Salabè è un intenso e radicale poeta ancora inedito. Le linee guida del suo poema ritrovano unitarietà nell’essenziale e universale musica del linguaggio e del sentire, che il lettore si ritrova a costruire come un collezionista di gemme preziose, una ad una.
Classicità e liricità danzano insieme in un vortice plurilinguistico, sorrette da una tagliente originalità e da una percettività capace di sconvolgere gli animi.

Le cose, per Salabè, hanno un’intensità insopportabile. L’io amante parla «contro il silenzio/ delle tue labbra, il loro spavento». L’amore è un appassionato ma anche vile spiare; spiare l’oggetto amato, mentre le parole che si precipitano ad afferrarlo se lo vedono svanire fra le righe e fra le rime come acqua fra le dita.

Il posto che occupa la lirica di SaLAbè è sicuramente tra le balconate della poesia in guerra con le parole; poesia che come in fiume scorre verso il silenzio. “Poesia verticale” avrebbe detto Saba. Glissare, ignorare, oscurare, felicità di non sapere. Canzoniere d’amore, ma di quell’amore che tutto pervade; quell’amore nauseante che sfiora i limiti della maniacalità grottesca. Versi graffianti, arcigni, che incidono le carni: «rima demente» dice una lirica.

L’ombra che si staglia sull’opera di Salabè è quella di Eugenio Montale, anche esplicitamente nominato. L’autore ha così interiorizzato la tradizione lirica producendo metafore dalla spiccata originalità e di consumata familiarità. Passione nella prima parte e disillusione nella seconda, la cui lama si fa meno affilata per lasciar spazio a un’ariosa leggerezza che vede il suo elogio in splendidi squarci di versi in spagnolo.

La «mancanza d’aria» da cui nasce la tensione a dire, a respirare, ad amare provocherà paradossalmente nel lettore una smania sempre più feroce di cibarsi di questi splendidi versi, come una dipendenza, come se fosse l’unica risorsa d’aria a sua disposizione.

Camilla Antonioni