Mostri e maestri nella doppia vita di Carla Gravina

La sua vita sarebbe stata solo… vita se, oltre la sua fresca espressività stampata su un viso tutto acqua e sapone, non fosse stata così naturalmente intensa tanto da attirare l’attenzione di quello che era un precursore ante litteram dell’odierno talent scout: il regista. Quella volta ingenuità fece rima e non solo per assonanza con casualità: così quella gracile e lentigginosa adolescente di nome Carla Gravina apparve nel bianco e nero delle prime commedie all’italiana con la semplicità della ragazza della porta accanto.

Venivo dal paesello nativo Gemona del Friuli dove ero nata nel 1941 e appena arrivata a Roma mi sentivo a disagio soprattutto quando dovevo prendere un ascensore: urlavo. Finiti gli esami di media davanti alla scuola in via D’Azeglio, mi fermo a parlare con un’amica che mi dice di farle compagnia perché doveva conoscere un ragazzo. Io replicai che non potevo poichè il mio severissimo genitore mi aspettava a casa e mi avrebbe rimproverato se avessi ritardato. Passò un minuto e ci venne incontro una macchina”.

Era Lattuada?

“Scese dall’auto, si presentò, dava del Lei e mi disse che cercava una ragazzina per un film e che gli interessava sottopormi a un provino: arrossii e balbettai, al cinema ero sta forse due volte in tutto; non so parli con mio padre e scrissi un numero di telefono su un foglio. A casa non dissi niente ma Lattuada chiamò e io ascoltai la telefonata nella quale il mio rigido genitore militare tutto di un pezzo si stupiva della cosa. Sapeva chi fosse quell’uomo e incredibilmente disse di sì. Il provino andò bene. Fui convincente, ma per il ruolo che Alberto immaginava ero inadatta: dovevo essere maliziosa e dunque seduzione e sessualità non mi appartenevano. Presi coscienza tornai a scuola, poi mi chiamo Blasetti il mio vero maestro, il regista cui devo tutto che aveva visto “Guendalina” il film in questione. Mi scelse per “Amore e chiacchiere”, affidandomi il ruolo della figlia di uno spazzino che si innamora di un ragazzo ricco”.

E lei vinse il premio come miglior attrice al festival di Locarno nel 1958 e poco dopo arrivò nella sua vita Gianmaria Volonté.

“Se mi guardo indietro, mi accorgo che il periodo dai 14 ai diciotto anni è stato il più felice della mia vita. C’era stata anche una piacevole disgressione televisiva: recitare in un parterre de roi assieme a Mario Feliciani, Alberto Lupo, Franco Volpi ed Eleonora Rossi Drago nello sceneggiato televisivo Padri e figli, regia di Guglielmo Morandi. E subito dopo indossare con estrema disinvoltura l’abito della valletta televisiva nel programma del sabato sera “Il musichiere “, condotto da un ironico e bonario Mario Riva. Non posso neanche dimenticare il ruolo della frivola servetta sempre fidanzata con qualche militare nel capolavoro di Mario Monicelli” I soliti ignoti “accanto ad alcuni mostri sacri del cinema. Poi è arrivato un altro mostro. Mortacci sua”.

Era il 1960 e la carriera della giovane attrice Carla filava via spedita sul doppio binario cinema-televisione, ma quell’anno a Verona per una sua improvvisa decisione il treno dei desideri s’infilò in un altro scambio: si trovò in teatro a recitare Shakespeare nell’immortale vicenda Giulietta e Romeo rimanendo letteralmente incantata dal brivido blu amoroso che le suscitava il carismatico protagonista maschile: Gianmaria Volonté. Da questa stazione in poi, il grande attore milanese sarà per abbastanza lasso di tempo il macchinista del diretto per quel convoglio amoroso in viaggio verso un futuro via via sempre più incerto e problematico.

Il mostro è Volonté?

“Avrei dovuto ascoltare De Laurentiis che mi sconsigliò di accettare quell’azzardo teatrale: non ero pronta, lui voleva diventassi un’attrice internazionale, mi aveva mandato a Londra per studiare l’inglese, ma non gli diedi retta e la mia vita si ribaltò per sempre. Con Gianmaria siamo stati insieme per otto anni. L’ho amato e lo amo ancora. Ogni tanto lo sogno ma il nostro era un rapporto troppo difficile e complicato. Il suo egocentrismo sommato alla mia  latente introversione mi faceva stare male e debole. Ho dovuto allontanarmi dal rumore per capire. Star ferma a leggere quello che mi era successo. C’è voluto tempo”.

Dentro questa parentesi a cavallo tra gli anni 50 e 60 l‘attrice Gravina, alla ricerca della sua vera dimensione di donna, era stata “Esterina”, l’ingenua campagnola che scappa di casa nel film di Carlo Lizzani; dopo una ragazza ebrea nel film di Luigi Comencini ”Tutti a casa” con eccezionale protagonista Alberto Sordi; poi la collaborazionista Mira di ”Jovanka e le altre”, diretto da Martin Ritt in un cast speciale primeggiato da Silvana Mangano e Jeanne Moreau; e infine assieme ad Anna Maria Ferrero e Valeria Moriconi aveva caratterizzato incisive figure di donne nel film” Un giorno da leoni” per la regia di Nanni Loy; aggiungendo a queste interpretazioni di qualità che seppure non da protagonista assoluta pesano e tanto nel valutare il suo valore specifico, una notevole e variegata esperienza televisiva.

In quest’ambito la fa da padrona con tutta una serie di impeccabili interpretazioni: frizzante Marietta in Scaramouche di Daniele D’Anza; appassionata Tullia nel Caravaggio impersonato proprio da Gianmaria; eccentrica indossatrice nell’episodio di Nero WolfeVeleno in sartoria”; orgogliosa e poi redenta Katerina Ivanovna ne “ I fratelli Karamazov”; misteriosa e sfuggente nella serie tv ” Il segno del comando”; tomentosa e tormentata madre nell’aspro conflitto generazionale di ” Maternale” e particolarmente ispirata nel rappresentare in un bellissimo  film tv “Nella vita di Silvia Plath”, gli ultimi mesi di vita della scrittrice statunitense morta suicida a soli 31 anni.

Parimenti ritorna al grande schermo intrufolandosi nel western” Quién Sabe?” in combutta col suo mentore artistico Volonté e con lui ritorna al genere storico drammatico de “I sette fratelli Cervi” e al banditesco sociale di” Banditi a Milano”. Si lascia però trascinare dalla fede politica e dall’enfasi rivoluzionaria del tempo per diventare protagonista dello scandaloso e discusso film “Cuore di Mamma” regia dell’enfant prodige del cinema italiano Salvatore Samperi. Dopo una particina ne “La monaca di Monza” dove secondo qualcuno avrebbe potuto essere lei l’attrice principale, eccola intrigante vittima di un serial killer nel thriller drammatico “Senza Movente”, girato nella fiabesca cornice della Costa Azzurra dove spiccano Jean Louis Trintignant e Dominique Sanda. Siamo nel 1972 e una Carla Gravina trentenne ma splendente più che mai viene scelta da Pietro Germi per interpretare in “Alfredo Alfredo”, il ruolo di Carolina, una donna libera, emancipata e disinvolta che diviene l’amante di Alfredo Sbisà, timido impiegatuccio di banca, in antitesi alla moglie Maria Rosa arretrata, egoista e cattiva. Un film d’attualità che pone l’accento sull’impatto sociale del referendum sul divorzio nella realtà italiana. La magnifica coppia Dustin Hoffman e Stefania Sandrelli, miscela in un cocktail caricaturale di livello, gocce di velenosi paradossi imbevute dai soliti luoghi comuni che rendono quasi surreale il variopinto contesto sociale.

Carla Gravina conclude la carriera cinematografica nel 1993, con il film “Il lungo silenzio” di Margarethe von Trotta e alla fine mette in risalto, una volta per tutte, le sue doti di attrice dallo sguardo inquieto e dal fascino personale e aggressivo soprattutto a teatro: dopo quella famosa edizione del capolavoro Shakespeariano targata 1960 recita in seguito allo Stabile di Napoli, allo Stabile di Torino e al Piccolo Teatro di Milano nelle Baruffe chiozzotte di Goldoni (1964) e nel Marat-Sade di P. Weiss (1967). Da ricordare anche le sue partecipazioni al Teatro greco di Siracusa: Elettra di Sofocle, (1970) e al Teatro di Roma (Giochi nella notte di F. Gilroy, 1975). In seguito lavora in Sei personaggi in cerca d’autore (1980), La gatta sul tetto che scotta (1983), con la regia di Giancarlo Sbragia. Negli anni Ottanta, prende parte alla rinomata passerella del film di Ettore Scola “La terrazza”, per la quale si aggiudica il premio come “miglior attrice non protagonista al Festival di Cannes, per poi rituffarsi completamente nel teatro dove, diretta dai più importanti registi italiani (Giorgio Strehler, Luca Ronconi e Giancarlo Cobelli), interpreta personaggi come Mirandolina ne La locandiera” di Goldoni e, La governante (1984) di Vitaliano Brancati con la regia di Squarzina. Nel 1987 recita in Santa Giovanna dei macelli di Bertolt Brecht e l’anno dopo è al Festival Taormina Arte nel Faust diretto dallo stakanovista Sbragia. Ultimamente ha recitato in La marchesa di O… (1990) per la regia di E. Marcucci e Nostra Dea (1992) di M. Bontempelli (regia di M. Missiroli).

Questo fisiologico ritorno alle origini rappresenta dunque la fine del viaggio artistico di Carla Gravina perché il teatro è il suo posto delle fragole: il luogo dell’incanto esaltato ancor più dal contatto quasi carnale col pubblico, esplorato in tutte le sue declinazioni e a volte esasperato a tal punto da renderlo viscerale: terapeutico o letale.

Sul palco ho dato tutto. Vivevo per lo spettacolo, non pensavo ad altro, recitavo anche con la febbre a 40°, perché a teatro devi andare in scena comunque. Poi un giorno, alla fine di una faticosissima tournée con Giancarlo Sbragia malatissimo, il mio corpo disse basta. Il medico spiegò che si trattava di stress traumatico e come cura avrei dovuto fare la cura del sonno abbinata a tante medicine. Io buttai pasticche, bambino e acqua sporca e mi allontanai dal mio mondo. Prima per un anno poi per sempre. Avevo finalmente scoperto che la vita era altro e che avevo bisogno di scoprire, viaggiare, godere della libertà di dedicarmi a leggere, fumare e ignorare il telefono. Ogni tanto mi chiedono un’intervista: rifiuto. Ogni tanto mi invitano a cena: non vado mai. Non rinnego l’epoca in cui lavoravo, vincevo premi o imparavo copioni da Strehler e Ronconi. È passata, con la stessa casuale rapidità con cui arrivò”.

Con questa dichiarazione a margine di una intervista rilasciata nell’estate del 2014 a un giornalista di Dagospia, finalmente Carla Gravina, a più di vent’anni dal suo ritiro dalle scene, chiude i conti col passato. A quel tempo l’attrice ormai 74 enne, restia a ogni forma di protagonismo, fa uno strappo alla regola raccontandosi con grande sincerità, molta dignità, un pizzico d’ironia e senza rimpianti.

Dopo trentacinque anni di attività bisogna perciò rappresentarsi nel modo giusto perché il nuovo non finisce mai.

Vincenzo Filippo Bumbica