Lo spezzato hollywoodiano di Quentin Tarantino

Divertente, leggero e, solo quando è arrivato il momento di ribaltare la crudele verità della cronaca, eccolo, nuovamente spietatamente pulp. Bentornato Quentin Tarantino!
Dopo l’anteprima al Festival di Cannes, finalmente è arrivato al cinema, dal 18 settembre,
C’era una volta… a Hollywood. Come accade ormai dagli ultimi film, tempi lunghi per la produzione del ‘nuovo giocattolo’ del regista americano: ben quattro anni infatti, dal suo ultimo film The Hateful Eight, ma l’attesa è ripagata.

Stavolta però ci troviamo di fronte a qualcosa di parecchio lontano – almeno all’apparenza – dal classico film “tarantiniano”. Sappiatelo: non vedrete risse iperviolente e/o a scazzottate intrinse di sangue. Quello messo in scena da Tarantino è più un esperimento, un omaggio al cinema con cui è cresciuto e che ha amato per anni. Rispetto ai predecessori, ecco un’opera meno feroce, meno liberatoria, meno ‘studiata’ (in riferimento alla trama). Dal passato Quentin prende solo gli ‘elementi positivi’: i suoi soliti magnifici dialoghi fra i protagonisti, lo spirito di alcuni personaggi, le scene che presto diventeranno cult e, infine, l’intimo grido di riscossa contro il male che Tarantino vorrebbe storicamente cancellare. Anche in questo caso infatti, il cinema del regista hollywoodiano si fa ‘giustizia da solo’. L’esplosione tarantiniana che tanto amiamo è rock, strombazzante e infuocata; tuttavia, è anche molto breve e arriva dopo un lungo indugiare (alcuni minuti di troppo). Durante il film, però, c’è molto altro.

Ci troviamo nella Los Angeles del 1969, tra personaggi realmente esistiti e altri immaginari, tra meta cinema e ricostruzione storica.
Leonardo DiCaprio è Rick Dalton, un attore (di finzione) la cui carriera non è decollata come voleva. A metà tra luce e rischio di capitolare nel buio, Rick, famoso come cattivo di una popolare serie tv western, vuole osare il grande salto verso il cinema, ma ha una grande paura di fallire. L’ego lo sospinge, il terrore lo blocca. Accanto ha la sua leale controfigura, lo stuntman Cliff Booth, un Brad Pitt particolarmente ispirato. È lui che ruzzola nella polvere al suo posto, ed è sempre lui che aggiusta l’antenna della tv di Rick o gli fa da chauffeur all’occorrenza: è una sorta di maggiordomo hawaiano ma pure un vero amico, in un rapporto che, a suo modo, sa essere equilibrato nel dare e nell’avere. Una bromancetra saloon da set e camicie gialle a fiori.

Tramite il personaggio di Leonardo DiCaprio, Tarantino dà spazio, con ironia, ad alcune sue passioni, trattandole al contrario, o meglio, nel modo in cui venivano viste all’epoca. Rick si dispera all’idea di dover andare in Italia a girare spaghetti western, filone notoriamente amato da Quentin. “Qual è il problema?”, gli chiede Cliff vedendolo sconfortato. “Che devo fare quei c*** di film italiani”, risponde Rick, in uno di quei dialoghi destinati a rimanere iconici nel tempo. E chi suggerisce a Rick di riciclarsi a Roma? L’agente di casting Marvin Schwarzs, ovvero nientemeno che Al Pacino, poco presente nel film ma comunque incisivo e caratteristico.
Andando su e giù nei dossi emotivi di Rick, tra copioni da imparare ed errori sul set, esploriamo la fragilità di un attore che vuole essere un divo ma si sente “ogni giorno un po’ più inutile”. La fragilità umana del personaggio è viva e palpabile per tutto il film. Meriterebbe un Oscar la scena della roulotte, in cui Rick cerca di darsi carica prima di una ciak importante che deve girare: l’assurdità è che a riguardo Tarantino abbia di recente dichiarato che si sia trattato di una quasi improvvisazione di DiCaprio. Semplicemente geniale.

Rispetto a Rick, Cliff è invece un uomo serafico. Lo stuntman che fa da fratello maggiore al suo attore di riferimento: la principale magia di Tarantino in questo film è proprio nell’esplorazione del rapporto che intercorre fra i due. Troviamo un Brad Pitt saggio, ma che ovviamente non si tira di certo indietro se deve tirar un pugno (e nel film un certo Bruce Lee ne sa qualcosa: altra scena cult). Forse ha ucciso la moglie, la galera lo “rincorre da una vita”, eppure Cliff è il migliore amico che tutti vorrebbero. Non a caso, per Tarantino è proprio lui ad essere, in un certo senso, il vero eroe del film: fiuta il marcio nella tenuta dei Manson e ne incarnerà in tutti i sensi il vero e proprio giustiziere, aiutato dal suo fido ‘Brandy’ (no, non è un ubriacone come Rick), il cagnolino che la critica sta giustamente elogiando per un’interpretazione (strano a dirsi) a dir poco eccezionale. Forse anche questo rientra fra i superpoteri di Tarantino…

Insomma, poco da dire sul binomio Brad Pitt-Leonardo DiCaprio, alla loro prima volta insieme in un film. Davvero una gran coppia dimostratesi affiatata e assolutamente perfetta per i personaggi scritturati.

Tornando al film, alle spalle della villa di Rick c’è poi la villa di un regista affermato e di sua moglie. Ecco quindi Roman Polanski (Rafał Zawierucha), rappresentato come un giovincello e con capelli lunghetti e folti, ed ecco, soprattutto, sua moglie, l’attrice Sharon Tate, interpretata da un’ancora una volta stupenda Margot Robbie, che in C’era una volta… a Hollywood è più protagonista del suo celebre compagno.

In ascesa, forse frivola, di certo raggiante, Sharon Tate ha in regalo da Tarantino dolcezze bambine. Com’è tenera e intensamente umana quando va al cinema a vedere Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, commedia in cui ha una parte accanto a Dean Martin, e si compiace del pubblico in sala che ride alle sue scene. Forse i critici non avevano tutti i torti: Tarantino le relega un ruolo secondario facendola recitare davvero poco. Ma è una scelta voluta che punta ad un fine ben preciso, ossia quello di conferirle una chiave di lettura più profonda della semplice diva di quegli anni. Probabilmente, si tratta anche di una questione di rispetto per quella che è stata un’icona del cinema. La storia vera, infatti, purtroppo la conosciamo: il 9 agosto 1969 Sharon Tate fu uccisa nella sua abitazione di Beverly Hills, insieme con quattro amici, dai seguaci di Charles Manson.

 quel vorticoso mondo fragile, frivolo, raggiante, ma necessario. Tra colori accesi e atmosfere dolciastre anni Sessanta, Tarantino è profondamente nostalgico. E la cosa non dispiace affatto