Sono anni che si sente parlare delle nuove generazioni come un ammasso di scansafatiche che non cercano (e di conseguenza non trovano) lavoro; un branco di scansafatiche che non studia e che spreca la loro vita. Tutto questo è dovuto soprattutto all’abbandono degli istituti superiori da parte dei ragazzi. Negli ultimi quindici anni è risultato che oltre tre milioni di studenti abbiano lasciato gli studi: si parla del 31,9% su un totale di circa nove milioni di studenti. Naturalmente, questo incide sul numero di studenti che conseguono una laurea: l’Italia è la settima in classifica per percentuale di persone con un’istruzione superiore a quella delle scuole secondarie di secondo grado.
Se vogliamo parlare di numeri, tra i 30 e i 34 anni solo il 23,9% possiede una laurea; tra i 25 e i 34 anni il tasso di disoccupazione è più basso tra i laureati che tra i diplomati, che sono il 74% dei “giovani adulti”.
Anche nel resto del mondo le cifre sono poco rassicuranti. Ma lasciamole da parte: bisognerebbe concentrarsi di più sul perché tutto questo accade. Moltissime giovani menti rinunciano all’istruzione. Ma qual è la ragione che li spinge a fare questo? Un insegnante che si diverte a sminuire un ragazzino o una professoressa troppo giovane per riuscire a tenere calma una classe o ancora il mancato supporto per fronteggiare le difficoltà del percorso di studi.
Chi è che prosegue gli studi? Riflettendoci bene, si potrebbe rispondere che questo privilegio sia riservato a chi sia stato abbastanza fortunato da incontrare qualcuno che abbia loro trasmesso curiosità, passione e interesse, qualcuno che li abbia guidati e incoraggiati nonostante le complicazioni. Quindi è lecito chiedersi: perché non pensiamo a far tornare la voglia di fare ai ragazzi, la voglia di studiare e di mettersi in gioco, piuttosto che preoccuparsi del numero di laureati? Partire dal basso, per permettere a tutti di poter proseguire gli studi e riscoprire il proprio interesse nel sacrificio in ciò che piace.