La lingua italiana umiliata e offesa, ma non è morta

Febbraio 2016. Un giovane alunno di una scuola vicino a Ferrara suggerisce che un fiore possa essere colorato e petaloso.

La maestra definisce il suo un errore bello e, dopo una missiva inviata un po’ per gioco all’Accademia della Crusca, scopre di aver raggiunto una notevole fama a causa dello sbaglio fiorito del bambino: molti commentatori ammirano la creatività del piccolo e la fiabesca dolcezza della vicenda; altri si sentono assediati dalla sregolatezza. L’italiano sta morendo.

Gennaio 2017. Il professor Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca e docente di Storia della lingua italiana, lancia un tremendo monito: la proliferazione di anglicismi nell’italiano – molto maggiore di quella riscontrata, ad esempio, nel francese –, associata alla ricerca della semplicità estrema nei neologismi, alla disgregazione di modi e tempi verbali e allo sprezzo sempre maggiore per le sue radici classiche, potrebbe trasformare l’idioma del Bel Paese in una reliquia entro pochi decenni. L’italiano sta morendo.

Dicembre 2017. Un consigliere di Forza Italia suggerisce, citando alcuni risultati accademici, che sia lecito sospettare un legame diretto tra il numero di alunni stranieri e il rischio di un calo di rendimento in una data classe di scuola primaria. L’italiano sta morendo.

Come se non bastasse, gaffe e strafalcioni di volti noti della politica e dello spettacolo affollano ogni giorno le nostre bacheche, facendoci sentire intelligenti e preparati in confronto al “a suo tempo le chiesimo la disponibilità” di Gasparri o al “soddisfamento” di Di Battista.

L’italiano corretto si sente minacciato più o meno costantemente: il congiuntivo è defunto? Il tempo futuro lo seguirà a breve? A me mi verrà considerato corretto? La preposizione da e la terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo dare perderanno la distinzione immediatamente riconoscibile data dall’accento? La nazione verrà divorata dall’anglofonia imperante, magari pure maccheronica?

Storicamente, l’italiano è cresciuto e si è rimodellato accogliendo e rielaborando gli impulsi, i regionalismi e gli errori creativi di una miriade di identità locali diverse. Anche nella paventata uniformità dell’oggi la varietà data non solo dai dialetti – di cui si teme la scomparsa – ma anche dai regionalismi sopravvive non al di sotto, bensì al di fuori dell’ufficiale.

Per una penisola proiettata sul Mediterraneo, poi, gli impulsi linguistici esterni non dovrebbero essere visti come un attacco, ma come nutrimento.

Basta allargare lo sguardo per applicare la stessa logica a qualunque linguaggio corrente: il cambiamento, sia interno che dato dallo scambio – anche non paritario – è stato ed è la vita di un idioma. Non a caso, le uniche lingue riconosciute come pressoché fisse nel tempo, in termini di norme d’uso e lessico, sono le lingue morte. L’argomento di discussione, casomai, risiede nella velocità e nella mole del mutamento, che il terzo millennio galoppante ha incrementato a dismisura, e nelle gerarchie tra le lingue protagoniste di questi processi, che comunque si presentano tutt’altro che fisse se consideriamo il medio/lungo periodo.

Infine, vale la pena concedersi anche qualche briciola di antropologia e riconoscere che spesso il confine tra corretto ed errato, e tra evoluzione e impoverimento, riflette e riproduce non osservazioni neutre ma distanze ed egemonie socioeconomiche.

La complessità dell’italiano non è scomparsa, ma è visibile – in parte – esclusivamente a chi ne vive lo scorrere tumultuoso, e questo suo momento – uno fra tanti – di crisi fertile si potrà ammirare nella sua completezza soltanto a posteriori.

Nel frattempo, per ogni sua piccola morte, una dozzina di potenziali rinascite fanno capolino nel nostro parlare, pensare, scrivere.

L’italiano intatto e immobile, miraggio a cui pare non si voglia rinunciare, forse è morto davvero.

Lunga vita all’italiano.

Riccardo Rossi