La dura vita di un senzatetto: tra diffidenza e indifferenza

Di Marco Salvadego per Social Up!

Con l’arrivo del freddo e delle prime gelate viene subito voglia di chiudersi in casa. Rinchiusi davanti alla televisione o vicino ad un caminetto, mentre nevica magari. Ma come se la passa chi una casa non ce l’ha? Oggi vogliamo parlare di chi il Natale lo passerà nelle strade, sui marciapiedi. Ci sono molte persone che in questo esatto istante sono senza fissa dimora; alcune di loro cercano di arrangiarsi come meglio riescono, altre chiedono elemosina. Le vediamo ovunque nelle grandi città, ma realmente cosa pensiamo di loro? Come consideriamo accattoni e senzatetto? Sono un problema? Un pericolo? Dei bisognosi? È interessante notare come queste persone siano considerate in modi molto diversi tra loro, quasi che il termine accattone o senzatetto abbia carattere anfibologico.

L‘Enciclopedia di polizia del 1952 definiva l’accattonaggio, ossia la professione di chi chiede elemosina, come “una piaga sociale che è sempre esistita..che comporta il rischio di una menomazione sociale”. Una piaga sociale quindi. Ma a ben vedere chiedere l’elemosina non è reato (l’art 670 c.p. che sanzionava l’accattonaggio è stato abrogato). Lo diventa solo se condotto con mezzi fraudolenti, come le finte menomazioni o l’inganno, o mendiate l’uso di minori. Dove sta veramente il problema? Per capirlo dobbiamo tener conto che i senza tetto per un verso vengono considerati una piaga sociale da arginare, ma contemporaneamente sono destinatari di aiuti da parte di moltissime associazioni private e pubbliche che si occupano di tutelare i più poveri. Sembrerebbe allora che più che ad una piaga sociale siamo difronte a individui che attraversano un momento difficile della loro vita, e che forse necessitano di aiuto. Quindi come mai tanta diffidenza e indifferenza verso i senza tetto e gli accattoni?

Una vicenda che ci mostra questa bivalenza nel trattamento di accattoni e senza fissa dimora ci arriva da Trieste. Il sindaco del capoluogo friulano infatti, nel regolamento di polizia urbana ha previsto importanti sanzioni non solo per chi chiede l’elemosina ma anche per chi offre loro del denaro. Insomma vietato fare e chiedere l’elemosina a Trieste. Tuttavia questo regolamento non ha fatto in tempo ad essere approvato che il TAR FVG ha subito bocciato un’altra ordinanza, che vietava lo stazionamento e il consumo di cibo nei luoghi pubblici, a seguito del ricorso di un senza tetto. Come si è detto, per meglio capire il fenomeno, è necessario distinguere l’accattonaggio (il richiedere l’elemosina di professione) da altri fenomeni che sono invece legati ad uno stato di indigenza di questi soggetti. Se appare comprensibile voler limitare il più possibile coloro che chiedono l’elemosina nei luoghi pubblici (ma solo se condotta con mezzi fraudolenti o ingannatori) altrettanto però non si può dire nel caso di soggetti che non avendo fissa dimora stazionano nei luoghi pubblici. Toglierli dalla strada non vuol dire spostarli dalle zone centrali e trafficate delle città con provvedimenti “anti-barboni”. Nell’ordinanza fa riferimento mancano i presupposti di necessità e urgenza richiesti. Ma la questione è politica: la battaglia contro la povertà si combatte non emarginando i senzatetto ancora di più, ma predisponendo un serio modello di reinserimento sociale. Ordinanze anti-barboni spostano il problema, cercano cioè di nascondere queste persone alla vista, senza voler cercare veramente una soluzione.

Forme di assistenza privata e pubblica per coloro che si trovano in una situazione di povertà assoluta ci sono, come il MIA -Milano in azione- il Pane e Vita ONLUS o gli Amici dei senza tetto. Si occupano di portare cibo e beni di conforto, ma ovviamente si tratta di un palliativo. Altre iniziative sono state adottate ad esempio in materia di spreco alimentare. Per combattere queste forme di povertà comunque è necessario predisporre delle agevolazioni al reinserimento sociale di coloro che si trovano in difficoltà. L’aiuto fornito da queste associazioni che garantiscono la distribuzione di cibo non solo nelle apposite mense, ma anche tramite un servizio “di strada” non risolve il problema. Una soluzione potrebbe essere prevedere una de contribuzione per chi assume queste persone, o un esonero dal versamento contributivo, sulll’esempio dell’iniziativa adottata dalla città americana di Denver . Infatti se andiamo a vedere molti di loro hanno un lavoro, ma saltuario e per nulla specializzato. Lavorano alla giornata, e il loro stato di indigenza è dovuto alla incapacità di inserimento  stabile in ambito lavorativo. Serve allora una seria riabilitazione nel mondo del lavoro, altrimenti il problema si ingrandirà con il tempo.

Invece di limitarci a allontanare persone che attraversano un momento di difficoltà, dovremmo chiederci se è sensato spendere tempo e risorse in aiuti “a cascata” che servono solo come rimedio momentaneo, o se sarebbe più sensato spendere qualche risorsa in più per reinserire queste persone, eliminando alla radice il problema.