Kobe Bryant, la silhouette nera nel racconto dei racconti gialloviola

Vago come un sogno, esatto come la matematica. È il basket bellezza. Una improvvisa variazione sul tema e una matematica successione di numeri. Un creativo gioco di mosse e contromosse attraverso gli schemi. Una partita a scacchi tra due allenatori alla costante ricerca del giusto equilibrio tra attacco e difesa. Uno spettacolo che racchiude la sua essenza così particolare nel” Magic Moment” di un’azione decisiva in cui si lascia l’ultimo ballo per lui: il leader riconosciuto cui si passa la palla dalla mano che scotta.  

“Non ho mai badato alle conseguenze dello sbagliare un tiro importante. Perché? Perché quando pensi alle conseguenze, pensi sempre ad un risultato negativo”. In questa frase è condensata la strabocchevole personalità di uno dei più carismatici giocatori mai apparso su un campo a due canestri: l’armonioso Apollo nero con indosso la maglia numero 23 dei Chicago Bulls che il Dio della pallacanestro ha scelto per diffondere il suo verbo: Michael Jordan.

“Be like Mike” è dunque il mantra di un giovane rookie colpito da un’attrazione fatale che tracima nell’emulazione: si, perché se c’è una cosa che lo fa impazzire è il modo di giocare di ”The Air”, il suo modo di tirare o quello di passare. Lo guarda per ore e non si stanca di imparare quei movimenti così particolari.

Ventisei giugno 1996 a Rutherford, quel ragazzotto nato a Philadelfia nel 1978 entra nella National Basket Association dove in occasione di un interessantissimo Draft, che vede tra l’altro coinvolti anche Allan Iverson e Roy Allen, si decide il suo futuro. Anziché lui, i New Jersey Nets però scelgono Kerry Kitless (pare per una” Mandrakata” di Arn Tellem, agente di Kobe, in cerca di qualche dollaro in più) e il destino sotto forma di una monetina che gira in aria atterrando dalla parte sbagliata, lo colloca dal numero otto al tredici, direzione Charlotte, ma le sorprese però non finiscono qui: gli Hornets infatti hanno bisogno di un centro e lo scambiano con Vlade Divac dei Los Angeles Lakers.

E così Kobe Bean Bryant, per venti anni diventa l’angelo nero della città degli angeli, inimitabile vessillifero di una squadra colorata giallo e viola quasi a identificare nel contrasto tra solare e floreale un misto di sentimenti e situazioni. Qui ha inizio la costruzione di un amore che non avrà mai fine.

Dopo i fasti e gli splendori di un passato legato agli ingombranti ricordi di personaggi come Karim Abdul Jabbar e Magic Johnson, comincia l’anno zero per la squadra più glamour della lega professionistica statunitense: nello stesso anno viene ingaggiato un certo Shaquille O Neal un inamovibile totem d’ebano nei pressi del canestro sforacchiato poi con metodica precisione dalla penetrante silhouette di Kobe. Qualche stagione appena per amalgamarsi, completare la rosa e ingaggiare come allenatore il santone Phil Jackson e a Los Angeles approdano, inarrestabili come i cavalloni marini del Pacifico, tre titoli consecutivi NBA: 2000; 2001; 2002. Nei due anni successivi giunge però il momento della bassa marea per i Lakers. Succede quando i rapporti fra i due s’incrinano pericolosamente: ragioni private (l’accusa di stupro dove l’imputato Kobe tira in qualche modo in ballo Shaquille) e questioni tecniche dovute alla fase calante di quest’ultimo in concomitanza con la crescita esponenziale dell’altro, portano entrambi a prendere con la dovuta considerazione l’idea di cambiare aria.

Nel 2004 dunque, Jerry Buss signore e padrone della società dopo la sconfitta in finale ad opera dei Detroit Pistons, è costretto a prendere una decisione e sarà lo scontento e scostante O Neal a fare le valigie.

Ormai Kobe Bryant è un Re Sole nella città del sole e detta le regole. Così dopo un periodo di transizione nel quale però stabilisce il suo score personale di 81 punti, nella partita contro i Toronto Raptors del 2006, esige nuovi rinforzi e l’acquisto di Pau Gasol allontana la sua reiterata ipotesi di un repentino allontanamento dopo la finale persa contro i Boston Celtics. La cosa è sicura è solo questione di tempo e così dopo gli anni dei limoni neri, a Los Angeles si forma un’altra strana coppia che però funziona a meraviglia nel contesto di una vera squadra con tutti i tasselli a posto. In virtù del suo sostanziale surplus di classe, l’apporto dello spagnolo diventa decisivo e permette al cosiddetto” Black Mamba”, corrispettivo di quel letale serpente velenoso, di bucare a morte con i sui tiri  letali la difesa avversaria infilando la retina da qualunque posizione. Come volevasi dimostrare, nella ricca bacheca della squadra dei divi cinematografici, Jack Nicholson in testa, spiccano sgargianti due anelli d’oro, suggestivi simboli di altrettanti trionfi, a chiudere il biennio 2009 – 2010.

Ancora da favoriti i Losangelini affrontano la stagione successiva sperando ancora in qualche momento di gloria, ma in semifinale vengono annichiliti dai Dallas Mavericks. Per Kobe solo qualche soddisfazione a livello personale: scala posizioni su posizioni fino a giungere nella top ten della classifica marcatori, che già nel febbraio del 2012 lo vede classificato al quinto posto assoluto. Un’escalation inarrestabile che malgrado qualche periodo di magra e un brutto infortunio al tendine di Achille, si conclude, nel dicembre del 2015 con 32.293 punti che significano il sorpasso sul suo idolo Michael Jordan e la definitiva conquista del terzo gradino di un podio stellare, dietro Kareem Abdul Jabbar e Karl Malone nella classifica tiratori All Time della NBA.

Non tanto per l’età quanto per questo grave problema fisico, diventa un giocatore vulnerabile ed è costretto a svoltare l’angolo della sua luminosa strada sportiva e si trova a percorrere quella un po’ in ombra: il lungo viale del “Sunset Boulevard”. Non se ne cura, anzi e il 30 novembre 2015 come un attore consumato sceglie bene l’ultimo copione per annunciare il suo ritiro definitivo dalle scene cestistiche per la fine della stagione successiva. Il suo addio pubblicato in una lettera aperta, traboccante d’amore per il basket e di toccanti ringraziamenti per la squadra nella quale ha vissuto per venti anni, diventa un manifesto sentimentale scritto col cuore:“Hai fatto vivere a un bambino di 6 anni il suo sogno di essere un Laker e per questo ti amerò per sempre. Ma non posso amarti più con la stessa ossessione. Questa stagione è tutto quello che mi resta. Il mio cuore può sopportare la battaglia la mia mente può gestire la fatica ma il mio corpo sa che è ora di dire addio”.

Il lucido parquet dello Staples Center di Los Angeles, sarà sempre lo specchio che rifletterà la sua personale polvere di stelle: stampate a fuoco sulla pelle come i cinque successi NBA; alternate alle strisce bianco rosse della bandiera per celebrare i due titoli olimpici; luccicanti d’argento nella dimensione del pianeta basket.

Kobe Bryant è stato un giocatore totale poiché in grado di ricoprire  più di un ruolo in campo e dunque anche capace, quando era necessario nell’arco di un incontro, di coniugare l’elegante levità di un formidabile gesto atletico all’estrema sintesi di una conclusione decisiva.

“Se non credi in te stesso, nessuno lo far per te”. Chissà quante volte prima da bambino che giocava da solo e poi da affermato cestista col numero 24 tatuato nell’anima, quell’indomabile guerriero si sarà ripetuto quella frase. L’esempio del padre, la gavetta nel college e l’innata classe cristallina non avrebbero mai formato un simile atleta senza lo sforzo decisivo della sua volontà.  

Chi l’avrebbe mai detto che il figlio di Joe Bryant detto” Jellybean”, un onesto cestista che si guadagnò la vita in Italia tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, una volta tornato in patria sarebbe diventato così grande da rappresentare una vera e propria leggenda cestistica dallo score mostruoso: 33.643 punti.

A volte anche i proverbi ingannano e quello che recita: “Tale padre, tale figlio” in questo caso e per fortuna è stato palesemente improprio.

Vincenzo Filippo Bumbica