Tra il 2013 ed il 2015 l’Africa Occidentale è stata flagellata da una delle più grandi epidemie di Ebola registrate da quando il virus è stato identificato per la prima volta. La violenza delle manifestazioni della malattia, la rapidità di contagio, il numero incredibile di vite distrutte (i morti sono 11.316 al 17 gennaio 2016), si sono imposte nella vita di tutti noi come un incubo. L’Occidente che, fino a quel momento, credeva di essere al sicuro, si è scoperto vulnerabile ed ha conosciuto la paura, nonostante della realtà dell’epidemia avesse solo una vaga intuizione.
Noi di Social Up Ne abbiamo parlato con Fabrizio Pulvirenti, primo occidentale contagiato da Ebola nel presidio di Emergency di Lakka, in Sierra Leone, mentre operava come medico volontario.
Cosa vuol dire, per lei, essere medico?
Le posso rispondere come ho risposto quando mi fu chiesto “Che cosa avrebbe fatto, se non avesse potuto fare il medico?” ecco, avrei sognato di fare il medico. Possiamo dire che fare il medico è la una missione di vita, il mio ruolo nella società, il coronamento di un sogno d’infanzia. È quello che ho sempre voluto fare.
Cosa l’ha spinta alla decisione di operare nei territori martoriati da Ebola? Essere medici è una missione, certo, ma non tutti farebbero quello che ha fatto lei.
Io sono uno specialista in malattie infettive. Durante la specializzazione in infettivologia si conoscono numerose patologie tropicali. In quel momento, il sogno di vedere in prima persona quello che si studia sui libri è un qualcosa che viene un po’ a tutti, un desiderio che penso un po’ tutti proviamo.
Quanto è lontana dalla realtà la percezione degli scenari dell’epidemia che in Occidente otteniamo attraverso i media?
Vede, dell’Africa noi occidentali abbiamo spesso una percezione romantica o disastrosa a seconda dei punti di vista. La realtà è che l’Africa attuale è inginocchiata da un’invasione capitalistica. In un continente dove la maggioranza della gente vive costantemente in una condizione di disagio e povertà, per assurdo, il sogno di tutti è avere la TV satellitare piuttosto che l’ultimo modello di smartphone. Ci troviamo di fronte ad una “occidentalizzazione della mano sinistra”, ad una forma di “civilizzazione” che non dovrebbe arrivare lì dove ci sarebbe invece bisogno di interventi nello stato sociale, di diritti, di un sistema sanitario solido e pubblico.
La sua è stata certamente un’esperienza drammatica. Come ha influito sul suo modo di affrontare l’infezione la conoscenza che il lavoro che svolge le dà della patologia?
Sicuramente ha avuto un ruolo determinante, sia in positivo che in negativo. Durante le prime fasi, infatti, sapevo perfettamente cosa mi stava succedendo e questo, ovviamente, comportava un senso di angoscia. Al contempo, è stata di grande aiuto perché conoscendo l’evoluzione della malattia ero in grado di percepire se stavo vivendo un momento di risalita o uno in cui le cose “andavano male”.
Cosa ha imparato dalla sua esperienza di medico volontario, prima ancora che da quella di malato?
Essenzialmente si impara, anzi si rimpara a rapportarsi con il paziente in modo umanitario prima ancora che scientifico. Si rimpara a prendersi cura del paziente oltre che a curarne il corpo. E poi ci si trova di fronte ad una grande spinta di solidarietà, la stessa che ho poi vissuto io in prima persona. Io sono stato il primo occidentale ad essere contagiato nel centro di Emergency di Lakka; quando è stata data la notizia del mio contagio c’è stata un’incredibile corsa di solidarietà; sono state diramate le richieste di sangue compatibile con il mio gruppo e nel giro di venti minuti ben cinque persone si sono presentate per donare. Questo fa un po’ da termometro di come è vissuta un’epidemia in quei luoghi.
A conti fatti, lei è un sopravvissuto. Uno dei pochi fortunati. Quanto di più pensa si possa fare per combattere Ebola? Per salvare più persone possibile?
Le epidemie hanno un decorso naturale. Quello che c’è stato di diverso nella epidemia del 2013, 2014 e buona parte del 2015 è la diffusione. Piccoli focolai di infezione si soffocano facilmente con la cintura sanitaria, ma quello che è successo con quest’ultima epidemia è stato determinato anche da una politica sbagliata da parte di molti paesi africani. Ebola ha viaggiato sulle autostrade e si è così diffuso tra paesi confinanti. Ciò che sarebbe necessario è una sorveglianza sanitaria locale più vigile, un sistema sanitario nazionale ben organizzato, simile al nostro, l’implementazione di nuovi punti sanitari anche appoggiandosi alle numerose ONG che operano sul posto. Sono tutte cose fondamentali per limitare le epidemie che costano certamente in termini di risorse umane e di capitale. Ciò nonostante, la speranza è che l’Occidente si renda conto che in Africa serve sì la presenza costante di volontari, e che questo va ben oltre le pur giuste e utili donazioni. È necessario che si occidentalizzino la cultura e l’assistenza sanitaria e che ci sia un’istruzione che inizia dalle scuole elementari fino all’Università.
Cosa pensa dei progressi ottenuti fino ad ora nella ricerca per la realizzazione di un vaccino?
Per ciò di cui sono a conoscenza, di vaccini ne esistono essenzialmente due. Uno di produzione Canadese, della Merck, ed uno di ricerca italiana prodotto da GlaxoSmithKlain. Io conosco solo quello GSK che è stato prodotto da Okairos. Sostanzialmente funziona attraverso l’inserimento all’interno di un virus piuttosto banale di un frammento di RNA codificante per una glicoproteina di Ebola. Il corpo al momento della somministrazione del vaccino produce anticorpi contro la glicoproteina che saranno poi in grado di riconoscere il virus. È un vaccino molto interessante soprattutto scientificamente.
Anche per combattere ebola è nato “E-bola, sulle tracce dell’epidemia”, un film che vuole formare ed informare a cui lei ha partecipato, se non sbaglio, in qualità di testimonial. Come è nata l’idea? Quanto crede possa contribuire?
Ritengo che la formazione sia, comunque, un valore aggiunto nel percorso di ogni medico. Sapere come affrontare Ebola non è tanto qualcosa di utile ogni giorno nei nostri ospedali, ma ti serve nel momento in cui ti trovi lì, sul posto a dover fronteggiare l’epidemia. Tuttavia, quando di Ebola si parlava molto e male, un po’ più di conoscenza scientifica invece di nozioni mediate da testate giornalistiche che, anche in quel frangente, hanno approfittato per scrivere dei titoloni, sarebbe stata utile. Ricordiamoci che l’Occidente non ha certamente vissuto quello che è successo in Africa, ha solo visto degli schizzi di Ebola attraverso i volontari che si sono accidentalmente contagiati.
L’Africa ha ancora bisogno di aiuto, sebbene il picco dei contagi sembri essere rientrato. Intende tornare in quei luoghi come volontario un’altra volta?
Io ho dato la mia disponibilità a Emergency, l’ONG con la quale opero, per ripartire laddove fosse necessaria la presenza dell’infettivologo che è una figura professionale chiave in molte situazioni critiche
Nell’ultimo periodo si parla con preoccupazione della Febbre di Zika. Si tratta, senza dubbio, di qualcosa di molto diverso dalle febbri emorragiche, ma sembra comunque altrettanto allarmante, seppur per diversi emotivi. Che idea si è fatto a riguardo?
Zika potrebbe arrivare da noi, ma non è Ebola, causa certamente un danno minore risultando pericoloso solo per le donne gravide in quanto il virus, trasmesso dalla puntura di una zanzara (la Aedes aegypti, che non è presente alle nostre latitudini), sembrerebbe in grado di integrarsi nel genoma del feto. Per quello che ho potuto leggere dalla stampa specialistica sono all’esame alcuni casi di bambini nati con microcefalia; ma è tutto ancora non del tutto chiarito.
Quindi a suo parere si sta facendo un po’ troppo allarmismo?
Probabilmente si, come spesso succede.
L’augurio che ci facciamo è che, anche ora che la situazione è meno pressante, non venga abbassata la guardia dalle Organizzazioni Internazionali e che si continui a cooperare affinché Ebola faccia sempre meno paura.