Il primo re: Romolo e Remo, sacralità ed empietà nella mitica fondazione di Roma

Dopo “Veloce come il vento”, il regista Matteo Rovere torna al cinema con il suo “Il primo re”, un film notevole, complesso e originale sia per regia che per sceneggiatura, in cui le figure di Romolo e Remo, leggendari fondatori di Roma vengono approfondite con intelligenza, demistificate ed esaltate al tempo stesso, attraverso una reinterpetazione del mito e uno stile di regia crudo e realistico, che non nega però l’aura metaforica e mitologica della storia raccontata, anzi, pone una forte attenzione al dualismo tra sacralità e empietà, valori incarnati metaforicamente dai due protagonisti del film.

Romolo e Remo, infatti, sono due gemelli, orfani dei genitori: due sopravvissuti nello spietato mondo proto-latino descritto dal regista. Un mondo senza civiltà, in cui vige la legge del più forte, in cui perfino il culto degli dei è a rischio, perché risiede solo in una fiamma, custodita da una sacerdotessa vestale che ha dedicato ad essa la sua vita. Dopo una serie di vicessitudini Romolo e Remo si ritrovano a contatto con questa fiamma, che segnerà per sempre i loro destini, necessariamente legati tra loro, ma allo stesso tempo diametralmente opposti.

La scena iniziale in cui i due gemelli sono costretti dalle guardie di Alba che li hanno catturati come schiavi a lottare tra loro attorno al fuoco sacro, non è che una acuta anticipazione di ciò che verrà in seguito. E’ da qui in poi, infatti, che le scelte dei due fratelli divergeranno. Uniti, essi saranno destinati a separarsi, come dirà loro la profezia della vestale… (di grande impatto la scena del vaticinio).

Remo, interpretato da un ottimo Alessandro Borghi, spezzerà via le sue catene di schiavo e con una brutalità e un impeto guerriero, che sfida la fatica e i limiti umani calpesterà i suoi oppositori, includendo ben presto tra essi anche gli dei, da lui ripudiati, perché portatori di limiti e impositori di regole, che l’”uomo libero” non è più in grado di sopportare.

Romolo, un altrettanto carismatico Alessio Lapice, ferito quasi a morte pur di proteggere il sacro fuoco e custodirlo, sarà coerente con la sua fede, e alla rabbia e al puro e semplice dominio, preferirà l’accoglienza, la civilizzazione e la condivisione della sacralità: scegliendo di alimentare il fuoco del divino e della speranza, piuttosto che estinguerlo e vivere senza di esso. Nonostante le diversità ideologiche, tra i due gemelli esiste un legame biunivoco, quasi simbiotico, reso perfettamente dall’acuta regia. Entrambi darebbero la vita per proteggere l’altro, ma, infine, sono pronti a dare la vita per difendere le loro convinzioni. Bello e coinvolgente il rapporto di fratellanza che li lega, un vincolo necessario, ma anche doloroso, dalla cui recisione nascerà il vero re.

In quest’ottica metaforica la reinterpretazione del mito è potente e ben ponderata da parte degli sceneggiatori Filippo Gravino, Francesca Manieri e lo stesso Matteo Rovere, come sottolinea quel “solco finale”, che se oltrepassato causa la morte di chi ha osato valicare la soglia, tracciato da Romolo non per decidere dove costruire la città, come raccontato nel mito, ma per tracciare un confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è; per sostituire la legge del più forte con un patto tra uomini liberi con cui dare vita ad una società organizzata, guidata da un re portatore di valori e ideali, non soltanto di forza e della volontà di predominio. E’ la funzione civilizzatrice di Roma, incarnata dal Primo Re, la stessa che la farà diventare un grande impero e che è celebrata dai grandi poeti, tra cui senza dubbio Virgilio e Dante (es. Canto VI del Purgatorio in La divina commedia).

A questo proposito la figura di Romolo rievoca da vicino la “pietas” di Enea, protagonista dell’epopea virgiliana, un eroe (“eroe-sacerdote”) che ha un destino da compiere che pesa su di lui come un compito necessario voluto dagli dei, fondare la città di Alba, un compito di fronte al quale ogni altra cosa che lo ostacoli deve essere abbandonata. La scelta registica è voluta, anche perché secondo una versione del mito di Romolo e Remo, essi sarebbero addirittura discendenti di Enea, e Romolo è anche lui portatore di un compito voluto dagli dei: essere il primo re di Roma.

E’ così che il film di Rovere diventa epico: perché sfrutta Romolo e Remo, il loro legame di sangue e la loro personalità come metafora di valori assoluti destinati a scontrarsi, sebbene le loro battaglie siano tutt’altro che epiche. Come si diceva all’inizio, infatti, il film è crudo, violento, realistico. I seguaci di Remo non sono valorosi soldati, ma gente brutale, spesso simili a bestie, uomini dai valori e dalle credenze rudimentali, superstiziosi al punto da uccidersi tra loro. Le loro conquiste sono effettuate versando sangue con violenza e razziando i villaggi, facendo “evolvere” questa marmaglia di sopravvissuti ad un insieme di feroci e spietati dominatori.

Una regia dal “sapore” internazionale quella di Matteo Rovere, con grandi carrellate dall’alto (in questo senso epica) e utilizzo di campi larghi. Ottime anche le scene d’azione che evidenziano la brutalità degli scontri e la precarietà della vita umana dei combattenti, che appaiono davvero come dei disperati in lotta per sopravvivere e cercare riscatto.

La fotografia di Daniele Ciprì, sporca, scura, con scene che non risparmiano particolari truculenti della vicenda e poi l’utilizzo della lingua latina, con sottotitoli in italiano, sono tutti elementi che enfatizzano il realismo del racconto. Una sperimentazione che in mano a qualcun altro sarebbe potuta essere deleteria. Non così in questo film, che ha anche il pregio di recuperare il latino, che è parte integrale della nostra cultura, con grande forza espressiva. “Il primo re” è quindi un “inno” disincantato, ma allo stesso tempo “epico nei valori” di Roma e, quindi, del nostro sostrato. Adottando tecniche registiche di alta fattura, secondo lo stile cinematografico americano, si spinge oltre con una contaminazione, uno sperimentalismo e una coerenza di sceneggiatura che da tempo non si vedevano nel nostro cinema e che si spera possano incidere anche nel panorama cinematografico internazionale, a cui questo film si rivolge e giustamente ambisce. Bravissimi i due attori. L’interpretazione di Alessandro Borghi (Remo), che domina la scena, ma anche quella di Alessio Lapice (Romolo), che cresce durante tutto il film per mostrarsi con forza nel bel finale. L’augurio è di vedere partecipare questa pellicola a molti festival italiani e internazionali.

Francesco Bellia