Era il 1955 quando «Pane, amore e …» usciva per la prima volta nelle sale cinematografiche. Il terzo capitolo della saga, preceduto da “Pane, amore e fantasia” e “Pane, amore e gelosia”, e poi seguito da “Pane, amore e Andalusia”, è famoso per la scena in cui Sophia Loren balla un travolgente mambo italiano insieme a Vittorio De Sica: lei esuberante Smargiassa inguainata in un abito rosso agita a tempo il corpo, dimena con ritmo i fianchi e spavalda scopre le interminabili gambe, lui circospetto e compunto maresciallo Carotenuto a modo suo tiene botta.
A differenza del tocco lieve e delicato con cui Luigi Comencini firma i primi due capitoli della saga dove in un caratteristico paesino di provincia regna la semplicità bianconera di un paesaggio rupestre nel quale si muove la ruspante Bersagliera, una contadina dalla fresca bellezza interpretata da Gina Lollobrigida; in questo film il graffiante Dino Risi lascia impressa sulla pellicola il suo inconfondibile marchio di fabbrica che trova il suo diapason nell’ormai indimenticabile ballo tra i due: l’avvenente fisicità della Loren e la signorile comicità di De Sica sull’incantevole sfondo della penisola sorrentina diventano la cartolina marinara che sostituisce quella montana dell’Italia candida e speranzosa dei primi anni cinquanta che ora comincia a scoprire il suo vero volto anche attraverso le baruffe amorose dei protagonisti.
La maggior parte delle riprese di questi film avviene in Ciociaria, in quello spazio geografico che occupa i territori della provincia di Frosinone, una delle aree più interessanti d’Italia dal punto di vista del folklore e delle tradizioni, ricca di attrazioni storiche e di pregio artistico di una certa rilevanza. Sarà un caso, ma proprio in questa regione e precisamente a Sora nasce, il sette di luglio dell’anno di grazia 1901, Vittorio Domenico Stanislao Gaetano Sorano De Sica, indiscusso capostipite di una prestigiosa rappresentanza di attori corregionali quali Marcello Mastroianni, Nino Manfredi, Gina Lollobrigida e di un regista: Giuseppe De Santis.
Pur giovane di belle speranze per le sue indiscutibili qualità di charme e dialettica, Vittorio sembra destinato a una carriera impiegatizia nella banca d’Italia. Invece, casualmente, a partire dal 1926 comincia a collezionare una serie di particine a teatro e nel cinema brillando per l’irresistibile simpatia provocata dal sorriso affabile e smagliante di un seduttore nato che si innamora a turno delle colleghe di lavoro oppure di qualche occasionale ammiratrice.
Dopo la splendida performance di “Gli uomini che mascalzoni” (1932), dove sfoggia anche una notevole verve canora intonando Parlami d’amore Mariù, conferma il successo ottenuto con incisive interpretazioni in altre commedie sempre dirette da Mario Camerini. Dall’eccentrico personaggio di “Darò un milione” (1935),) passa al disinvolto libertino di “Ma non è una cosa seria” (1936), poi impersona il sorridente cafoncello provinciale de “Il signor Max” (1937) e autista innamorato scagiona la sua bella accusata di furto nell’intrigo sentimentale di “Grandi Magazzini” (1939), ultimo film e degno epilogo della cosiddetta “pentalogia piccolo-borghese”. Partner ideale della maggior parte di queste commedie si rivela Assia Noris, la diva dei “telefoni bianchi”, dove il virgolettato definisce un periodo cinematografico sottolineato dai giocosi contenuti amorosi e laccato dal candido nitore di raffinate ambientazioni.
Elegante, di classe, poliedrico, giocatore incallito, autoironico, scanzonato, intuitivo e geniale, prima di diventare regista prova l’esperienza di attore e regista contemporaneamente in Maddalena zero in condotta, del 1941, Teresa venerdì, dello stesso anno, Un garibaldino in convento, del 1942. L’anno dopo regista a tutto tondo gira il primo dei suoi capolavori dedicati alla complessità del vivere della gente comune con la stupenda attenzione al mondo infantile di I bambini ci guardano di cui scrive la sceneggiatura assieme a Cesare Zavattini che diventa così, oltre un amico insostituibile un suo straordinario collaboratore. Dietro la macchina da presa De Sica esprime l’altro volto del suo immenso talento artistico che si concretizza con una pregevole sfilza di titoli pluripremiati e assolutamente riconosciuti a tutt’oggi pietre miliari nella storia del cinema mondiale.
Se Rossellini è stato” stoico” del neorealismo, De Sica ne ha rappresentato il lato sentimentale. Qualità primaria che gli consente di vincere l’Oscar nel 1946 con la toccante fiaba intinta di tragico del film Sciuscià; commuove l’Italia riflettendo lo specchio dei tempi con l’amara vicenda metropolitana di “Ladri di biciclette” (1948); mostra sprazzi della sua fervida fantasia confezionando un surreale spettacolo di lotta sociale in “Miracolo a Milano” del (1951), tratto da un romanzo dell’amico Zavattini e rappresenta con sobrietà la misera esistenza di un pensionato sfrattato nell’esemplare traccia di vita vissuta di “Umberto D”(1952). Inesausto continua a frugare nelle pieghe delle esistenze umane con la mesta vicenda di Stazione Termini, quand’ecco che diventa uno e trino nello scrivere, interpretare e girare” L’oro di Napoli” un film che riassume tutti gli aspetti di quella quotidianità partenopea così strettamente legati al suo modo d’essere.
Inaugura alla grande il nuovo decennio confezionando un altro pregevole film “La ciociara” che vede Sophia Loren, incantevole nella sua drammaticità, premiata con l’Oscar come migliore attrice protagonista. Da un soggetto e una sceneggiatura del sodale Zavattini trae lo spunto per girare “Il giudizio universale” un surreale tentativo di ritorno al futuro neorealistico bocciato però dalla critica malgrado la partecipazione di un cast di artisti eccezionali. Dopo l’episodio di Boccaccio 70 in cui troneggia ancora una volta la Loren, sua attrice feticcio, il regista frusinate nel 1962 rappresenta con lucidità gli oscuri toni di un soggetto di Jean Paul Sartre “I sequestrati di Altona”, per poi ritornare al tipico rito multicolore dell’Italia in apparenza opulenta ma cinica nella sostanza con il film “Il boom” ottimi protagonisti lo stratosferico Alberto Sordi e di riflesso la bella Gianna Maria Canale. Lo stesso anno esce “Ieri, oggi e domani”; seguito a breve distanza dalla bellissima trasposizione cinematografica della storia di Filumena Marturano di “Matrimonio all’italiana”. Assoluta conferma dell’artistico valore mondiale della coppia Loren- Mastroianni. De sica regista chiude col botto del premio Oscar 1972 per il miglior film straniero “Il giardino dei Finzi Contini” dove racconta con rara levità l’approssimarsi della inaudita violenza sgorgata dalla tragedia della guerra.
Parallelamente a questo esaltante percorso cinematografico il baldo Vittorio sfoggia l’estro giocoso dell’istrione nel tipico personaggio della commedia leggera. Ecco impersonare, nel suo periodo d’oro degli anni cinquanta tra affari, donne e bel mondo, una ridda di personaggi quasi donchisciotteschi quali: il padre ladro matricolato di “Peccato sia una canaglia”; il sarto finto moralista di “Padri e figli”; il gaglioffo che sotto la divisa nasconde malaffare de “I due marescialli”, con l’irresistibile Totò e il sindaco opportunista e traffichino de “il vigile”, tanto per citarne alcuni con l’imbarazzo della scelta. A questi accoppia, opposte nel carattere e nei contenuti, altre figure umane di alto profilo come lo scettico maggiore Rinaldi, responsabile medico dell’ospedale di “Addio alle armi”, e il miserabile millantatore che si riscatta nel superbo film di Roberto Rossellini “Il generale della Rovere”.
De Sica nel privato è un uomo inquieto ma di forti sentimenti e riesce nonostante tutto a conciliare le sue movimentate vicende di cuore con il continuo sdoppiarsi, soprattutto in occasione di importanti festività, fra due famiglie, malgrado il divorzio dalla prima moglie Giuditta Rissone per sposare Maria Mercader, viene però altresì costretto dalle circostanze a numerose partecipazioni in pellicole, alcune non degne del suo talento, per far fronte ai debiti di gioco, passione che ha riportato in maniera giocosa in diversi suoi personaggi cinematografici: il nobile decaduto di buone maniere de Il conte Max; l’indispettito giocatore di scopa annichilito da un bambino in L’oro di Napoli; lo spiantato corteggiatore di ricche vedove nel dorato ambiente di Montecarlo; il padre scroccone di un figlio ingenuo di “Un italiano in America”; e l’impeccabile viveur che insegue la chimera della fortuna in ” Io non vedo, tu non parli, lui non sente”. In generale però quasi tutti i suoi personaggi rimangono intatti e impressi a tutt’oggi nella nostra memoria per l’autenticità alternata alla verità di comodo con cui raccontano le loro storie.
“Il mio scopo è rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso della piccola cronaca, anzi, della piccolissima”, rivela a questo proposito.
L’eredità artistica e dispersiva di Vittorio De Sica consiste nell’aver riunito dentro di se tante anime che hanno rappresentato il nostro paese attraverso i suoi momenti più tragici ed esaltanti avendo come punto di riferimento un’idea di cinema che guarda la realtà.
“Il viaggio”, titolo del suo ultimo film datato1974, diviene la sua metafora di vita. Il 13 novembre di tale anno, Vittorio De Sica in seguito a una delicata operazione chirurgica sale in cielo. Anche se sono passati 44 primavere da lassù, assieme ai bambini della sua famosa pellicola, anche lui ci guarda.