Swedish-born American film actress Greta Garbo (1905 - 1990). (Photo by Hulton Archive/Getty Images)

Greta Garbo, la Divina dal fascino misterioso

Anche la settima figlia dell’arte ha il suo museo itinerante: qualunque schermo bianco su cui da oltre un secolo possano scorrere le immagini di ambienti che più diversi non si può; di storie delle trame più comuni a quelle più disparate; di avventure oltre il confine del limite umano: insomma tutta una serie di vicende, professionalmente interpretate in quantità da un’innumerevole sfilza di bravi attori e attrici e in qualità dall’indiscussa maestria di una ristretta cerchia di Divi.
I ritratti degli uni e degli altri farebbero bella mostra di se in questa virtuale galleria e si potrebbe visitarla magari con l’ausilio delle proprie emozioni a spasso nel tempo cominciando a soffermarsi fin dalla prima sala: quella che contiene i quadri più pregiati. E non per caso che, ci si possa immediatamente trovare davanti alla magnifica espressività di un’attrice: immaginata, raffigurata e incorniciata in tutto il suo affascinante mistero appare l’immagine di Greta Garbo che in virtù della sua originalità semplicemente unica diventa la Gioconda cinematografica, trasposizione metaforica del suo apparire etereo figlio di una fine ambiguità, accentuata poiché attraversata da un sottile sorriso.

In una specie di ritorno al futuro, questa effigie proiettata sul candido lenzuolo della memoria si anima nel raccontare se stessa.
C’era una volta una fanciulla dal bellissimo disegno del volto e dalle piccole imperfezioni di un corpo appena troppo imponente e c’era qualcosa in lei che andava diritto all’anima: pur adolescente appariva di già conturbante. Possedeva quel certo non so che di eleganza che esaltava l’indiscusso suo fascino, quando smetteva i panni della commessa per indossare i capi d’abbigliamento in vendita al PUB, il più grande emporio di Stoccolma. Non poteva perciò rimanere seppellita tra i banconi, quella figura dalla femminilità particolare e a più dimensioni che un giorno del 1922, incantò il regista Erik Petscheler e rimase impressa a lungo nella sua retina. E dunque Greta Lovisa Gustafsson, inquietante esempio di un’algida e rara bellezza, non era solo un piacevole spettacolo per gli occhi quando fu introdotta dal suo estemporaneo scopritore nel mondo del cinema. Le sue pose figlie di un inconsueto modo d’essere, non passarono inosservate al provino del 1924 con quel raffinato maestro di vita e di stile che era Mauritz Siller: costui divenne suo mentore e pigmalione fin dai tempi del film”I cavalieri di Ekebu” e sempre più incisivo nel disegnarle la carriera, come esperto sapiente innovatore della tecnica cinematografica, le consigliò di cambiare, oltre il look, anche il nome e così ispirandosi al sovrano ungherese Gabor, lei assume il nome d’arte di Greta Garbo: una delle più celebri attrici di tutti i tempi, un mito intramontabile non solo nel ricordo degli appassionati cinefili, ma anche di quelli cui a tutt’oggi regala le emozioni del suo tempo, dove era anche possibile alle grandi personalità cinematografiche di restare a lungo appiccicati, oltre che su una qualsiasi parete bianca anche in quella più liscia della fantasia collettiva.


Addirittura meritevole dell’appellativo di Divina, per questo suo modo unico di essere diversamente donna riversato anche nella sua professione, l’attrice svedese nata nella capitale il diciotto settembre del 1905, dal muto al sonoro nell’arco di una carriera durata poco più di venti anni, interpretò diverse tipologie femminili. Personaggi di spicco, nobilitati dalla sua attraente figura immortalata da splendidi primi piani, che fecero epoca: vamp fatale che si riscatta in”Orchidea selvaggia” del 1929; cui segue l’intrepida donna appassionata de “Il bacio”, nello stesso anno.
Piccola e fragile donna, ma forte esempio di sovrana illuminata, costretta dal suo ruolo a sacrificare il sentimento appare in “La regina Cristina”; torbida e sensuale veste gli affascinanti panni di” Mata Hari”, l’infida spia che tuttavia per un palpito del suo cuore finisce per essere fucilata.

Poi accoppia la parola alle movenze e diventa ancor più incisiva, seducente e versatile, raffigurando in bianconero e arrichendola di varie sfumature la sua già vasta antologia di figure femminili: determinata e passionale, accompagna la sua voce incisiva a una disinvolta dizione interpretando” Anna Christie”, la prostituta redenta che svela per amore il suo disonorevole passato; vulnerabile e fragile si dedica come una vestale al balletto e benché star applaudita rimane disilluso personaggio in cerca d’amore in “Grand Hotel”; malinconica e coraggiosa, nei suoi abiti ottocenteschi rende romantica l’infelicità di ”Anna Karenina”, moglie trascurata e infedele che perde la vita abbandonata da un vacuo bellimbusto; sfortunata e nobile di sentimenti, s’identifica nelle delicate fattezze di ”Margherita Gautier”, cortigiana dai tanti successi e vittima predestinata dei suoi eccessi; bellissima e sfolgorante, tratteggia le sottili sfumature di “ Maria Walenska”, la contessa polacca protagonista di un contrastato idillio con l’imperatore Bonaparte; mutevole e cangiante, per finire, nel 1939 si cimenta nell’inedito ruolo della rigida “Ninotchka”, tipica esponente di un pensiero politico dispotico che finalmente innamorata si abbandona ironica alla vita e alle sue piacevoli trame.
In quel decennio la Garbo scrisse un pregevole capitolo della saga cinematografica e la sua firma d’oro era sigillo di regina. E come tale nel suo sfavillante regno, fu esempio anche di fine stravaganza capace perfino di dettare anche nel vestire uno stile completamente diverso dai consueti canoni di Hollywood: lo stile cosiddetto Garbo. Per lei, carismatica icona della diversità, perdono la testa, tra gli altri, il fascinoso John Gilbert, indiscusso protagonista del cinema muto e il compositore Leopold Stokowsky. Aiuta il primo in difficoltà col sonoro per via del suo inadatto timbro vocale imponendolo al regista come suo partner ne “La regina Cristina”, mentre rompe col secondo dopo una romantica fuga sentimentale a Ravello, sulla costiera amalfitana nel 1938. L’algida Greta, la donna che non sapeva amare, smentisce questo stereotipo quando s’invaghisce perdutamente della cerebrale e raffinata poetessa Mercedes de Acosta, una lesbica dichiarata, in seguito, conclamata amante della sua rivale storica Marlene Dietrich.


“Fata severa”
, come la definì Fellini, respinse le avances dei successivi pretendenti e diede l’ostracismo all’incauta intellettuale colpevole di aver rivelato alla stampa anche riferimenti sulla loro storia d’amore.
Riservata di natura e strenua protettrice della sua vita privata, consapevole di questo suo ruolo, la Garbo non si lasciò mai però completamente fagocitare dai media su certi aspetti intimi della sua vita relazionale.
Il suo precoce ritiro dalle scene, nel 1941 a soli trentasei anni, non è solo da attribuire al clamoroso insuccesso del suo ultimo film: ”Non tradirmi con me”, ma forse al bisogno di rinchiudersi dentro una latente fragilità per ricercare il dolce ricordo di quella malinconica bambina che era stata. In quel preciso momento, però da gran sacerdotessa sacrificata al cinema, Greta Garbo fu costretta all’estrema rinuncia poiché si rese conto dell’incapacità di continuare ancora ad affrontare con la sfrontatezza necessaria le luci della ribalta, talvolta illusorie e ingannevoli.

“Non ho mai detto voglio stare sola; ho solo detto voglio stare in pace e c’è una bella differenza”. In tutta quest’amara precisazione, comincia a dipanarsi il suo malinconico autunno.
Sommersa da ingombranti cappellacci, nascosta da scuri occhialoni da sole e dispersa in abiti lunghi senza forma, alta, dinoccolata e legnosa ogni tanto si aggirava per le vie di New York, dove nel frattempo risiedeva in pianta stabile.
In realtà era il suo fantasma quello che appariva agli occhi di chi cercava ancora di strapparle una frase e catturarne un’immagine per il morboso piacere di documentare la sua vecchiaia.
Lei, la vera Greta Garbo viveva un’altra dimensione protetta dalla sua spirituale dignità tra le amiche mura domestiche attorniata dai suoi contrastanti ricordi e confortata dai quadri di Renoir che collezionò con la passione autentica e genuina di chi ama, non importa chi o cosa.
Questo modo gentile dell’anima, è il fil rouge dei suoi indimenticabili film, la cui visione avvolge lo spettatore fino alla dimensione magica di fargli vivere cento anni nello spazio di  quasi due ore.
Ecco perché da quel 15 aprile del 1990, giorno di Pasqua in cui La Divina venne a mancare, nel suo ricordo il tempo è relativo e lo spazio infinito. Nella costellazione del cinema la sua stella brillerà per sempre e i suoi fan, ahimè sempre più sparuti, dovranno però attrezzarsi degli strumenti adatti per cogliere la sua luce.

Vincenzo Filippo Bumbica