Gregory Peck, l’uomo dal vestito grigio

Quella sera del 1938 assistendo a uno spettacolo teatrale a Broadway, rivide come in controluce la filigrana del suo passato e capì che le cose non potevano rimanere com’erano: doveva assecondare le proprie aspirazioni nascoste dall’alibi delle necessità, poiché il carattere è il destino di un uomo.

Sicché il baldo ventiduenne Eldred Gregory Peck, iscritto all’Università di Berkeley che aveva tutti i numeri per diventare un eccellente medico decise di tentare la carriera artistica.

Non aveva vissuto un’infanzia stabile. I suoi genitori si separarono quando aveva cinque anni: prima fu affidato alle cure della nonna e poi mandato in una sorta di collegio militare cattolico, dove al grido di “Marcia e prega”, gli fu impartita una severa educazione che gli rimase attaccata come una seconda pelle sostituendo il tempo decoroso dell’autorità paterna.

Da quei trascorsi prese l’abbrivio la carriera dell’attore nato a La Jolla nel 1916. Cominciò a profilarsi il personaggio simbolo di un’America tipica e al contempo diversa, che talvolta mostrava l’altra faccia della luna rispetto ai ridondanti eroi hollywoodiani.

E dunque all’alba della seconda guerra mondiale dalla quale fu esonerato per problemi alla spina dorsale, si trasferì a New York, s’iscrisse al Neighborhood Playhouse e cominciò la lunga gavetta della dura e difficile carriera teatrale accompagnata da vari mestieri, finché nel 1944 avvenne la svolta col ruolo importante di un partigiano russo in lotta contro i nazisti nel film “Tamara figlia della steppa”. Scelto in virtù soprattutto del suo fisico notevole, ancora acerbo, umile e intraprendente, seppe però correggere la sua recitazione a tal punto che nello stesso anno con “Le chiavi del paradiso” ottenne una nomination all’Oscar per la stupenda caratterizzazione del prete missionario Francis Chisholm.

La naturalezza della sua apparente legnosità, la fissità dello sguardo indagatore e quell’aria riflessiva tipica di chi ha bisogno più tempo per mettere a fuoco una situazione, sono connotati che incuriosiscono Alfred Hitchcock, il maestro del doppio travestito da normalità. Con la sua regia a fianco dell’incantevole Ingrid Bergman nel thriller psicologico ”Io ti salverò”, Gregory Peck inaugura una galleria di personaggi incisivi, positivi e romantici a volte tormentosi e tormentati ma uniti dall’aspirazione all’integrità morale, opposti ai pochi ruoli inquietanti e cattivi come eccezione che conferma la regola.

Contadino di commovente umanità nel sentimentale ” Il cucciolo”. Risoluto pistolero si disputa col leale fratello l’amore della passionale meticcia Jennifer Jones nel rovente western ”Duello al sole” del 1945. Impavido giornalista avvia un’inchiesta sul razzismo antisemita in ”Barriera invisibile”. Integerrimo avvocato perde la testa per la sua ambigua cliente Alida Valli, de “ Il caso Paradine”, ancora diretto da Hitchcock.

I suoi ruggenti anni quaranta si chiudono con tre ruoli assortiti: fuorilegge ma giustiziere in ”Cielo giallo”, cupo e introverso scrittore in “Il grande peccatore” e inflessibile e spietato generale in Cielo di fuoco”. Imperterrito, passa dal western ”L’avamposto degli uomini perduti” al kolossal biblico “Davide e Betsabea”, poi indossa la divisa di un ufficiale della marina inglese contro Napoleone ne ”Le avventure del capitano Hornblower” e s’immedesima nei panni di Ernest Hemingway in “Le nevi del Kilimangiaro”. 

Nella singolare atmosfera di una Roma in bianconero avvolta dalla scintillante luce che a intermittenza sprigiona ottimismo e semplicità, gira nel 1953 accanto alla deliziosa Audrey Hepburn Vacanze Romane”. Il giornalista Joe Bradley in cerca di uno scoop sensazionale e la giovane principessa Anna , insofferente  alle austere regole di corte dettate dell’etichetta diventano due figure leggendarie, indimenticabili per la memoria collettiva.

Ormai divo affermato, attento e meticoloso, cesella altre figure variegate come l’ossessionato e rude capitano Achab di ”Moby Dick”; l’implacabile Jim Douglas di  “Bravados”; il disagiato gentiluomo de Il Grande paese”; l’azzimato scrittore schiavo della bottiglia di “Adorabile infedele”; l’ufficiale antimilitarista di “38°parallelo missione compiuta” e il comandante del sottomarino che ama senza speranza la sopravvissuta Ava Gardner de “L’ultima spiaggia”.

Dopo un anno sabbatico ritorna in scena, maturo ma pimpante, nel kolossal bellico “I cannoni di Navarrone” del 1961. Si conferma tale nello spettacolare racconto di un’epopea ne”La conquista del West” e si supera in intensità recitativa nell’espressiva e sobria raffigurazione di Atticus Finch, il protagonista de “Il buio oltre la siepe”. L’interpretazione del coraggioso avvocato difensore di un negro accusato di stupro in una piccola cittadina del sud negli anni trenta definito: ”Il più grande eroe della storia del cinema Usa”, gli vale un Oscar. Continua quel periodo degli anni sessanta, interpretando “Il promontorio della paura”,  dove viene perseguitato dallo psicopatico Robert Mitchum; si ritrova affetto da pericolosa amnesia in “Mirage”; e sventa un complotto con l’aiuto di Sophia Loren nello spionistico ”Arabesque”. Il tramonto di quel tempo anticipa il suo e la differenza tra il dignitoso ”La notte dell’agguato” e il fiasco del mediocre ”L’oro dei Mackenna”, sembrano fargli imboccare la via del senile confine di un vecchio e disilluso cowboy confermata dagli altri due western ”Il sentiero di Rio grande” e “La mia pistola per Billy”. Ritrova invece inaspettatamente nuove motivazioni: impersona “Mac Arthur, generale ribelle” e assume le inquietanti sembianze del  dottor Mengele con le sue mostruose allucinazioni in I ragazzi venuti dal Brasile”. Chiude in bellezza nel 1991 con ”I soldi degli altri”, regia di Norman Jewinson e nel remake di “Cape Fear” di Martin Scorsese  a parti invertite con Robert Mitchum, un percorso lungo cinquantasette film.

Tra questi ”L’uomo dal vestito grigio” del 1956, lo rappresenta al meglio: un impeccabile ritratto della vita abitudinaria dell’americano medio che ha sempre qualcosa da nascondere dietro la facciata tranquilla di un’esistenza normale e piccolo borghese.

Gregory Peck è scomparso nel 2003 all’età di ottantasette anni: lo immaginiamo riflessivo e dinoccolato con quell’inconfondibile sopracciglio alzato, aggirarsi tra il lussureggiante verde del paradiso dove il buio oltre la siepe non è mai esistito.

Vincenzo Filippo Bumbica