Gian Maria Volonté: la vita todo modo di un attore contro

“Io vorrei… vorrei tanto…” questa frase smozzicata, pronunciata con un furbo intercalare sottintende alcune precise richieste attentamente studiate e da tempo concepite. Viene altresì accompagnata dalla farisaica noncuranza di un mellifluo “non so…non so”, snocciolato a cantilena quasi a minimizzare le conseguenze dell’importante colloquio.

La solita manfrina, tanto l’integerrimo commissario, appena promosso responsabile capo della squadra politica, sa in anticipo che tutte queste larghe e illegali concessioni verranno integralmente accettate dal suo interlocutore e dunque ancora una volta otterrà il via libera per sfogare il suo bisogno di repressione inasprendo il solito modus operandi.

Già che c’è, spavaldo e impunito più che mai, il ligio servitore della legge vuole vedere l’effetto che fa una rivelazione buttata lì quasi per caso: informa così il suo superiore diretto, in maniera quasi confidenziale, che potrebbe essere coinvolto nelle indagini per il recente omicidio di una donna poiché suo intimo e assiduo frequentatore. Questi non batte ciglio anzi si limita ad ammiccare, soffermandosi invece sulle qualità sessuali che alimentano il pruriginoso chiacchiericcio sulla vittima impersonata da una bravissima Florinda Bolkan, splendidamente avvolta nella sua flessuosa bellezza androgina.

Eguali nei contenuti, ma diversi negli intenti i due mostrano in modi diametralmente opposti la loro reciproca soddisfazione confermata anche dall’aspetto fisico: l’uno schizoide represso con stampato un gelido mezzo sorriso che rende il suo ghigno ancor più indecifrabile lancia questa sfida per farsi beffa del potere e quell’altro mentre lo accommiata disegna pacato e sornione sulla faccia una bonaria complicità solo apparente.

In questa emblematica scena dell’epocale Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), un grottesco e corrosivo film di Elio Petri, il regista sottolinea con la matita blu l’uso distorto delle regole, l’abuso sistematico del potere e la distorsione della verità che questi tipi di esercizio impongono. Pratica assai diffusa all’inizio degli anni settanta periodo nel quale si svolge questa verosimile e allo stesso modo paradossale storiella urbana che racconta la parentesi nera di un’Italia lacerata da aspri conflitti sociali.

In questa surreale vicenda dove non sono mai banali i personaggi schierati come fossero su uno sfondo a scala piramidale spiccano, insieme a un folto stuolo di altri eccellenti attori, lo stralunato Salvo Randone e il compunto Orazio Orlando. Giganteggia però un altro straordinario e valente uomo di teatro, l’ovattato Gianni Santuccio che nella parte del Questore, in quel sulfureo dialogo con l’ex dirigente di Pubblica Sicurezza, svolge ieratico a mani giunte la sua liturgica funzione con la stessa asciuttezza di quella che mostra inanellando voluttuosi ghirigori di fumo sbuffati dal suo sigaro ardente.

Il protagonista principale si chiama invece Gian Maria Volonté: perfetto nell’interpretare il travaglio interiore che sconfina nella ordinaria follia di un uomo inquadrato, però abituato al comando e al contempo divorato da una specie di deformazione professionale che trascende nella dipendenza trasgressiva. Una recita da antologia dove con inaudita bravura egli svela l’anima del personaggio attraverso il volto della sua spietata inespressività animandolo con frequenze sincopate; una specie di burattino senza fili infagottato in un abito che sembra una divisa adattata alla sua grigia mentalità.

È un successo clamoroso, inaspettato ma meritato, quello dell’attore nato a Milano giorno 9 aprile 1933, i cui segnali di serio impegno civile e politico si erano già palesati nel 1967 con un film tratto da un racconto di Leonardo Sciascia “A ciascuno il suo”, inizio della folgorante collaborazione col suo primo regista mentore Elio Petri. Raggiunta finalmente a quasi quaranta anni la sempre cercata e mai perduta dimensione ideologica, Volonté prosegue imperterrito, la sua appassionata ricerca personale di alcune verità storiche portando sullo schermo attraverso la sua incontenibile recitazione molto carica di eccezionali mimetismi tutta una serie di tematiche etico socio culturali che sfociano nelle intricate vicende derivate da inchieste particolari su fatti specifici di interesse nazionale collegate alla spietata crudezza della cronaca vera e spesso dunque nera.

Così come interpreta le particolari esistenze di scomodi personaggi border line, tipici antieroi incapaci di adeguarsi al pensiero comune: l’evaso pericoloso che trova sostegno e tenta un colpo gobbo con i malviventi vecchio stampo Delon e Montand in “I senza nome” di Jean Pierre Melville; il sovversivo ufficiale che lotta petto in fuori contro la follia umana della guerra in “Uomini contro” di Francesco Rosi; l’irriducibile anarchico sempre pronto a combattere per un utopica uguaglianza sociale in “Sacco e Vanzetti”, manifesto perenne di universale memoria contro la pena di morte che, oltre della splendida regia di Giuliano Montaldo, si avvale della suadente voce di Joan Baez nobilitata dalla toccante musica di Ennio Morricone. Corrucciato, inquieto, febbrile e fattivo, Volonté continua a scandagliare col suo profondo senso critico l’ineluttabilità che incombe sul nevrotico operaio Lulù Massa nel suo problematico esercizio quotidiano del lavoro. Realtà amara descritta  in tutta la sua crudezza dal film,” La classe operaia va in paradiso”, ancora regista Elio Petri; sottolinea impietoso i micidiali guasti che produce il quinto potere asservito alla legge del più forte in” Sbatti il mostro in prima pagina”, pellicola di un altro cineasta “arrabbiato” Marco Bellocchio e con ancor più vigore spinge la sua minuziosa analisi sull’uomo di successo che lo sfrutta fino all’eccesso ma da esso alla fine viene ribaltato nel capolavoro di un altro regista contro: il Francesco Rosi di “Il caso Mattei”. Dopo questa crepitante trilogia anni settanta, Gian Maria non pago di se prova una a totale immersione nella profondità della sua coscienza umana prodigandosi col suo immenso talento a caratterizzare prima e vivisezionare poi nei minimi dettagli altri personaggi storici, letterari, reali o inventati che siano: il cerebrale gangster Lucky Luciano con tutta la sua raffinata crudeltà; l’eretico invasato Giordano Bruno arso vivo per ribellione al dogma religioso; il nobile compagno Emilio che compie un lucido ma necessario sacrificio nel film “ Il sospetto” di Citto Maselli; tale M, nome in codice a indicare il presidente di un certo partito apparentemente conciliante, ma in segreto avido e assetato di dominio nel grottesco thriller “Todo modo”, guarda caso ancora girato in combutta Petri suo solito complice; il docile ma arguto scrittore Carlo Levi di “Cristo si è fermato a Eboli”; lo specchiato uomo politico vittima di se stesso di “Il caso Moro”; il maturo Dottor Bedoya che rispolvera mai sopiti rimorsi giovanili in “Cronaca di una morte annunciata”; l’emarginato Felice lo sciancato del villaggio unica speranza di riscatto per “Il ragazzo di Calabria” e infine il coscienzioso e illuminato giudice Di Francesco della Palermo anni trenta in “Porte aperte”(1990) di Gianni Amelio. Una viscerale e intensa filmografia lunga un trentennio e di più onestamente un attore non potrebbe pretendere da sé stesso a quel modo, ma lui si chiama Volonté e immolarsi a una causa non è verbo che non abbia mai coniugato. Così muore a Fiorina in Grecia nel 1994 stroncato da un infarto durante le riprese del film” Lo sguardo di Ulisse” di Theo Angelopoulos.

Troppo intensa, fremente e strenua l’esistenza di “Un uomo da bruciare” come recita il suo primo film da protagonista: una coraggiosa denuncia sociale di Valentino Orsini e dei fratelli Taviani ispirato dalle gesta del sindacalista Salvatore Carnevale. Giusto riscontro per quel giovane che aveva ben presto scoperto la veemente pulsione artistica mescolata al sangue ribollente di passione politica e così il teatro divenne il luogo della sua iniziazione umana prima che recitativa: si era infatti diplomato all’Accademia d’arte drammatica nel 1957, aveva recitato in teatro (Fedra, Sacco e Vanzetti, Sogno d’una notte di mezza estate, Romeo e Giulietta, Zio Vanja) e alla televisione nella parte di Parfen Rogozin ne L’Idiota, di Dostoevskij. Altri autori come Shakespeare, Goldoni, Cechov e Nievo, erano la sua frequenza quotidiana finché per puro caso approda al cinema. L’esordio risale al 1960 con il film “Sotto dieci bandiere” di un certo Duilio Coletti, cui seguono alcune apparizioni in titoli di scarso credito fino a che s’impone nella parte di Ramon Rojo, il tronfio messicano dalla voce tagliente, in un set dove come protagonista di “Per un pugno di dollari”(1964) Sergio Leone avrebbe voluto Cliff Robertson mentre Eastwood fu un “ripiego” dell’ultimo momento, scelto soprattutto perché costava quasi niente e se la musica fosse stata composta da un altro autore, magari il psicopatico El Indio del successivo western spaghetti, “Per qualche dollaro in più”(1965), avrebbe avuto un altro volto, una diversa interpretazione e un altro riscontro al botteghino: ma come si sa la leggenda è anche figlia del destino.

Gian Maria Volonté è stato, senza dubbio alcuno, il più grande attore italiano (e, per chi vi scrive, anche tra i più grandi nel panorama internazionale): indimenticabile e impareggiabile, eccentrico e istrionico, tenace e creativo, duttile e scomodo, rigoglioso e ossessivo. Nessuno ha inciso come lui. La sua anima rimane perciò conficcata nella carne viva del ricordo bruciante di chi lo ha amato e apprezzato, perfino di qualcuno di quelli che non lo hanno condiviso per il suo inequivocabile schierarsi da una parte politica. Il suo lungo frastagliato, incessante e variegato percorso artistico però parla per lui, soprattutto se viene giustamente e da più parti inquadrato nella galleria dell’immortalità cinematografica.

Vincenzo Filippo Bumbica