Dagli schiavi alla moda: il branding

Il branding è un tipo di scarificazione ottenuto bruciando la pelle per mezzo di barrette di metallo incandescenti (le quali raggiungono temperature oltre i 1000°C). Ha origine nel 2700 a.c. dall’abitudine di marchiare gli animali e gli schiavi per dimostrarne la proprietà (pratica ancora oggi usata in Iraq). Agli schiavi erano imposti collari non rimovibili e, spesso, segni a fuoco specifici. Veniva utilizzato anche come strumento di tortura, per far parlare spie, eretici e streghe; in alcuni paesi del mondo questa pratica è ancora utilizzata. Hernando Cortez ha esportato la pratica del marchio a fuoco dalla Spagna verso il Nuovo Mondo nel 1541, quando portò il bestiame oltreoceano timbrandolo con il suo marchio di tre croci come deterrente al furto.

In altri Paesi, come in Francia e Inghilterra, il branding era usato per marchiare i criminali, pratica mantenuta fino al XVIII secolo.

La stessa pratica, spinta però da motivazioni differenti, è stata recuperata negli Stati Uniti del XX secolo: i membri di confraternite universitarie, specialmente di quelle con una predominanza di neri, si marchiano per rendere pubblica tale appartenenza. Come scrive l’autore Michelle Delio, “la pratica continua fino ai nostri giorni e molte figure preminenti, quali le star dei Chicago Bulls, Michael Jordan, Emmit Smith dei Dallas Cowboys e il reverendo Jesse Jackson, hanno la lettera greca della confraternita di appartenenza indelebilmente marchiata sulla pelle”.

In altri contesti, poi il branding viene utilizzato come segno radicale di sottomissione e di possesso. Viene  in mente una notizia uscita qualche tempo fa: Vittorio Vannutelli, attore romano di teatro e noto per la partecipazione alla fiction di Rai 3 “La Squadra”, marchiò a fuoco la sua ragazza con una V, come Vittorio.

Negli anni recenti, tuttavia, si è cominciato a concepirlo come mezzo ornamentale, scegliendolo da solo o in concomitanza con il tatuaggio. In molti Paesi, perfino nella permissiva Olanda, la pratica del branding è vietata dalla legge, per cui è ancora poco diffusa, anche se decisamente in ascesa.

Il branding si ottiene provocando ustioni di terzo grado sulla pelle, creando una sorta di tatuaggio di colore rosso carne e in rilievo. Durante la realizzazione del marchio, a causa della profondità dell’ustione, vengono bruciate anche le terminazioni nervose e la sensazione di dolore dura pochissimo al contrario di quanto si possa pensare. La parte più noiosa è la guarigione perché la ferita si irrita facilmente. A volte, per avere delle cicatrici più evidenti, questa irritazione è provocata volontariamente.

redazione