Cosa mangiava D’Annunzio? – #fooks

In tutta la sua vita Gabriele D’Annunzio attendeva sempre l’ora della colazione o del pranzo con vera gioia, e diventava d’umore intrattabile se il pasto non era prontamente servito. Era solito mangiare voracemente e abbondantemente, e spesso, anche se si trovava in un ristorante, dopo essersi concesso un ottimo pranzo, annotava su foglietti di carta alcuni pensieri, idee e sensazioni, perché affermava che la finezza dei cibi aiutava l’armonia mentale. Da molti fu considerato astemio, a causa della sua passione per l’acqua, di cui proclamava le innumerevoli virtù; in realtà non lo era, infatti per un paio di anni, in Francia, bevve  del vino, convinto dai viticoltori della regione sui vantaggi che il nettare poteva offrire alla sua salute. Tuttavia, non fu certo un raffinato gourmet, quanto piuttosto un attento cultore delle tradizioni e dei sapori della sua terra, l’Abruzzo. Ma nello specifico, cosa mangiava D’Annunzio?

Egli adorava la frutta, soprattutto mele cotte o crude, e ne mangiava in gran quantità. Gli piacevano inoltre il riso, la carne alla griglia, e ogni sorta di pesci. Non resisteva alla tentazione dei dolciumi, impazzendo per le mandorle tostate, per i marrons glacés e la cioccolata, che per lui era un eccellente toccasana dopo gli “incontri amorosi”. I dolci che però amava in una maniera davvero smisurata erano i gelati: se sapeva di non essere osservato, arrivava a mangiarne fino a dieci di seguito.

Per quanto riguarda la cucina tradizionale della sua regione di origine, l’Abruzzo, gli elementi semplici di una cucina realmente povera, rappresentavano per D’Annunzio il pretesto per recuperare un rapporto lontano con la sua Terra e la sua gente. C’è un senso di malinconia e nostalgia nel suo ricordare piatti come il salamino pepato della Maiella, le triglie allo spiedo, il cacio vermicoloso, il brodetto di pesce alla vastese o i maccheroni alla

chitarra. Alla nostalgia per la città natale e sua madre si ricollegano i frequenti richiami della memoria, come il profumo del pane; “la zuppa rustica all’uso del paese, ricca di zenzero, colorita e odorante”; il cacio pecorino che un servitore gli portava ogni mattina; la “porchetta d’oro” regalatagli dal ministro Giacomo Acerbo, conterraneo, e il dolce Parrozzo di Luigi D’Amico, uno speciale pane dolce, attaccandosi al quale avverte la suggestione di succhiare da esso la parte più genuina della sua regione.

Negli ultimi anni della sua vita, D’Annunzio non mangiava più moltissimo, e questo soprattutto per la sua grande fobia: la paura di farsi curare dal dentista! Negli ultimi anni, si vergognava di mangiare a tavola con i suoi ospiti: si nutriva di pietanze morbide in una stanza riservata e poi veniva a partecipare alla conversazione assieme ai commensali che avevano terminato di mangiare nella monumentale sala della “Cheli”, la sala da pranzo dove era imbalsamata la sua famosa tartaruga.

Un’ultima curiosità: D’Annunzio amò le rose quasi quanto amò le donne, nelle sue opere questi fiori sono continuamente citati, tra significati reconditi e allusioni misteriose. Al Vittoriale, dove si ritirò nei suoi ultimi anni, D’Annunzio volle rose dovunque: dal giardino fino, come motivo decorativo, alle stoffe d’arredamento, come soprammobili e rose persino in cucina. Per conquistare il cuore gelido della bella Eleonora Duse, si racconta che la invitò a cena facendole trovare una tavola suntuosa, con un centrotavola di rose profumatissime, fiumi di champagne rosé, ed un primo piatto veramente particolare: il risotto alle rose.

Rosa cape, spinam cave.

Emilia Granito