Chiara Vidonis torna con un secondo album intimo e rock “La Fame”

Esce venerdì 29 aprile “La Fame” il secondo album di Chiara Vidonis. Otto tracce che riportano la cantautrice triestina al centro della scena indipendente italiana, dopo il folgorante esordio nel 2015 con “Tutto il resto non so dove”, disco che ha raccolto unanimi consensi sulla brillante creatività di questa artista.

Chiara Vidonis ha all’attivo anni di concerti in tutta Italia, una serie di premi e riconoscimenti, tra cui la vittoria del Premio Bianca D’Aponte nel 2011 nella categoria “miglior interpretazione” e del Premio Pigro – omaggio a Ivan Graziani nel 2014 con il brano inedito “Comprendi l’odio”, oltre alla partecipazione all’album “Tregua 1997-2017 – Stelle buone”, riedizione del primo album di Cristina Donà, “Tregua”, nella celebrazione dei 20 anni dalla sua uscita.

Il nuovo disco, prodotto da Karim Qqru (The Zen Circus), contiene otto brani, essenziali nella durata ed espansi nella pienezza compositiva e autoriale, una prova di maturità che rende questo album profondo nelle parole che declinano amore ed esistenza, accurato nei suoni, contemporaneo e dall’attitudine rock, incisivo ma anche intimo; uno scossone e una carezza.

L’album è stato anticipato dal singolo e video “Lontano da me”, seguito dal brano “Quello che ho nella testa”.

“Quando ho capito di avere le canzoni giuste per un secondo disco, – ci spiega Chiara- mi sono chiesta cosa tutti questi brani avessero in comune e perché mi dessero la sensazione di essere tutti legati, anche se molto diversi tra loro. Non sapevo dare una risposta precisa, qualsiasi idea mi sembrava forzata, come spesso accade quando si prova a spiegare quello che è il frutto di un processo creativo, quasi sempre poco lucido. Ho lasciato quindi che le mie canzoni mi parlassero di loro, le ho ascoltate cercando di essere distante, come se fossero dei figli lasciati al mondo e quello che mi è venuto in mente subito sono state due semplicissime parole che al loro interno contengono un mondo: La Fame.

La fame è quello che ci fa sempre procedere in avanti, è quell’istinto che ci fa rispondere ai nostri bisogni più bassi ma anche a quelli più alti, la fame ci comanda e fino a che c’è la fame siamo vivi.

Il disco, attraverso 8 canzoni, parla di quello che ci muove o che dovrebbe muoverci, come esseri umani”. 

Il disco si apre con “La mia debolezza”, il brano più nudo e più denso del disco. È un brano che vuole spogliarsi di tutto, delle finzioni sociali, di quello che vogliamo mostrare di noi agli altri, di quello che dovremmo lasciar perdere e di quello che importa. Nel dialogo con l’altro c’è la resa, c’è lo smascheramento delle proprie debolezze e la volontà di avvicinarsi come esseri umani alle debolezze che abbiamo e che non devono spaventarci. Due esseri umani che si fondono e che abbandonano le distanze come un mare di confine. La fame di volersi incontrare è la fame più sana.

“Quello che ho nella testa” è il secondo brano, e qui la fame è quella più bassa, che muove le esigenze più feroci e meschine dell’essere umano. La fame di trovare qualcuno di cui fidarsi a tal punto da affidargli i nostri pensieri e le nostre azioni. Che si parli di un leader politico, religioso o di qualsiasi altro tipo di persona, siamo davanti alla fine del pensiero attivo quando ci abbandoniamo totalmente alle idee di qualcun altro, abbandoniamo la nostra fame e seguiamo cecamente quella di qualcun altro, che spesso ci manovra come burattini.

“Lontano da me” è un promemoria fatto a me stessa, una canzone che mi dice di non avere paura di cambiare percorso, di cambiare direzione quando questa non corrisponde più al sogno da cui ero partita. Prima di un primo passo c’è sempre la visualizzazione di un sogno. Quello è la spinta, la fame verso quello che desideriamo avere o essere. Ma il percorso non è sempre lineare e non dobbiamo aver paura di accogliere il cambiamento.

“L’inizio” parla di quello che è la proiezione di noi stessi nel mondo virtuale dei social media. Il brano è costruito su immagini che evocano del cliché nei quali siamo incastrati sempre più spesso. Seguiamo i trend del momento dettati da tik tok, ci sforziamo ogni giorno di farci portavoce di un pensiero profondo su instagram, cerchiamo la perfezione in una foto e poi rimaniamo frustrati dalla realtà così differente da quello che vorremmo mostrare. Divoriamo contenuti e li rivomitiamo senza avere avuto il tempo di digerirli, in una bulimia spietata che non è nemmeno più fame, ma ormai una patologia.

Con “La mia fame” arriviamo al senso del disco, quello in cui con più chiarezza descrivo quella che per me è la fame più giusta, quella che non ci fa procedere con fretta verso una soddisfazione che spesso poi ci lascia un vuoto più grande di quello che avevamo all’inizio del percorso. La fame che ci porta a saziarci assaporando e cercando coscientemente il nutrimento giusto, per non fidarsi mai di una droga. Una fame più lucida ma non meno intensa, perché è la fame che ci chiede di decidere davvero quello che ci serve per stare bene.

“Talento naturale” è forse il brano che più si inserisce in un contesto pop e ci fa delle domande molto dirette sulle quali riflettere. Si apre con la frase “ti sei accorto che io non valgo più di quel che spendo? Hai ragione quando dici che sono quel che svendo”. Lo considero un brano molto sincero, diretto, conciso. Nel ritornello parlo di quello che secondo me è uno dei talenti più utili ad un essere umano, ovvero “sopravvivere ogni giorno perché spesso so morire”. La capacità di rinnovarsi e rinascere da ogni fallimento, da ogni piccola morte alla quale assistiamo e che subiamo.

In “Come i sassi” affronto il tema della religione vissuta come un insieme di superstizioni più che come un percorso spirituale. Quello che avevo in mente era l’ambiente cattolico nel quale sono cresciuta, un piccolo borgo nel quale tutti si conoscevano e tutti potevano giudicare tutti. Un posto dove la Chiesa era un centro di aggregazione che negli anni ‘90 ancora aveva una sua importanza sociale, ma che non sempre ha avuto il ruolo di sostegno, anzi quasi mai, era più un luogo giudicante, che ti riempiva di sensi di colpa, dal quale uscire con qualcosa che “mi pesa sul cuore come i sassi”.  Le preghiere recitate senza capirne il senso, l’abitudine a non farsi domande, la Chiesa vissuta come un obbligo e mai come un sollievo. Una fame costante di domande mai soddisfatta. Questo è quello da cui mi sono dovuta spostare ad un certo punto, con molta fatica, per non rimanerne schiacciata.

Il disco si chiude con “Era meglio quando non capivo niente”, il brano più intimo di tutti. Qua siamo da soli, io, il piano e un violoncello, qualche rumore di fondo e basta. È come quando alla fine della festa si rimane in pochi amici stretti e ci si parla con più onestà, senza filtri. C’è ancora qualche rumore di fondo, di qualcuno che passa e se ne va, e c’è un po’ il riassunto di quello che si ha nel cuore. Quante volte ci siamo detti che era meglio non sapere, che era meglio non capire niente? Ma la fame non ci permette di rimanere incoscienti, ci mette davanti a quello che è e ci apre gli occhi alla consapevolezza, a volte crudele, ma sempre preziosa.

Claudia Ruiz