Dopo ben 35 anni dal primo film di Ridley Scott, “Blade Runner” torna sugli schermi, con un attesissimo sequel, diretto da Denis Villenuve, dal titolo “Blade Runner 2049”. In questa pellicola il giovane regista canadese si cimenta nella difficile impresa di dare un seguito ad un film considerato da critica e pubblico come un indiscusso e inamovibile cult di fantascienza, non limitandosi ad una semplice rilettura del classico, ma ponendosi fin da subito con sguardo innovativo e avvolgente, che abbraccia il passato cinematografico di partenza e lo assimila per completarlo, amalgamandolo con citazioni tratte dal romanzo di Philip Dick (“Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, che già era alla base della prima trasposizione filmica) e spunti narrativi di nuova creazione.
Il risultato è un ottimo film di fantascienza, che non viene opacizzato dall’ingombrante precedente, in quanto l’impronta registica di Villenueve è chiaramente visibile (come a suo tempo lo era quella di Scott). L’autore non soccombe alla tentazione sempre più frequente al cinema del puro remake, ma rielabora i contenuti del prequel spostandoli su un piano diverso, anche se plausibile e in continuità col primo capitolo, indirizzando fin dai primi minuti il suo film verso una direzione ben precisa.
Nel 2049 l’agente K (Ryan Gosling), è un nuovo blade runner, un cacciatore di androidi, il cui compito è quello di intercettare ed uccidere i Nexus 6, una catena di cyborg difettosi che si sono ribellati contro i loro creatori e si sono nascosti tra gli esseri umani, sfruttando la loro incredibile somiglianza con le persone reali. Durante le sue indagini si imbatte in uno strano mistero: sembra esserci la possibilità che uno di questi cyborg ribelli possa aver avuto un figlio, cosa ritenuta da sempre impossibile per un androide. Confuso da strane memorie che affiorano dal suo passato, il dective K prosegue le sue ricerche, attirando l’attenzione di Neander Wallace (Jared Leto), nuovo magnate dell’industria impengata nella fabbricazione di robot umanoidi, il quale è ossessionato dalla possibilità che un androide possa avere figli, dato il suo costante fallimento nel creare cyborg capaci di procreare.
Già dalle scene iniziali, la fotografia di Villenueve, così come le musiche da lui scelte, mostrano tutto il talento registico dell’autore, che gira un noir fantascientifico estremamente evocativo, cupo e decadente, anche più del primo Blade Runner. Le scelte del sequel si dimostrano fin da subito più fedeli al romanzo di Philip Dick che costituisce il soggetto della saga. Nel libro, infatti, l’umanità è per lo più migrata in altri mondi. Coloro che sono rimasti sulla Terra vivono stipati in squallidi grattacieli continuamente sommersi dalle nubi e dalle polveri radioattive del pianeta morente, che rendono il cielo grigio e opaco. Questo è appunto lo scenario descritto dal regista. Non una metropoli frenetica, cupa, grottesca e violenta, così come quella descritta da Scott nel primo film, ma una città immersa in un decadimento polveroso, spenta e mortifera, dilaniata dalla pioggia. La differenza non è di poco conto e viene più volte sottolineata dal regista, che immortala un mondo semi-abbandonato, fatto di immense discariche a cielo aperto e luoghi talmente radioattivi da essere stati del tutto abbandonati. Questi elementi non erano attenzionati allo stesso modo dal primo film di Scott, che seguiva più lo stile di un poliziesco fantascientifico urbano.
Anche il ritmo del film è decisamente diverso. Villenueve sfrutta le dinamiche da lui già brillantemente utilizzate in Arrival, per costruire un atmosfera thriller soffocante, come il mondo in cui il protagonista K continua a proseguire le sue indagini. Il ritmo di Balde Runner era più lento con picchi di tensione che venivano raggiunti nei momenti relativi alla caccia agli androidi. Non mancano scene “barocche” , come quelle in cui compare il nuovo creatore di androidi, “Wallace”. In esse le citazioni del primo film sono molto forti e rievocano l’arroganza e la megalomania del vecchio creatore di cyborg, Tyrell, che addirittura viveva in una immenso grattacielo a forma di piramide. Notevole la ricostruzione della metropoli, che sfrutta tutta la potenza del digitale per creare scenari memorabili.
Per quanto riguarda i personaggi di “Blade Runner 2049”: Ryan Gosling è perfettamente a suo agio nei panni del protagonista, il nuovo cacciatore di androidi. Il carattere di K è molto differente rispetto a quello dell’ intuitivo e impulsivo Rick Deckard (interpretato da Harrison Ford). Pur essendo anche lui duro a morire , si mostra fin da subito più riflessivo, malinconico e sensibile del precedente detective, come dimostrano la sua propensione ai ricordi e la sua relazione con un’intelligenza artificiale, “Joi” (interpretata da una “magnetica” Ana De Armas), alter ego decisamente meno algido della Rachel del primo episodio, ma pur sempre una macchina, olografica in questo caso. Il rapporto tra i due è inarrivabile e mentale, sebbene profondo, è un’amore riflesso, talmente fragile da poter essere facilmente interrotto dalla pioggia, da un guasto, perfino da un cellulare che squilla. L’atmosfera noir è perfettamente incarnata in questo rapporto ed è proprio l’introspezione psicologica del protagonista la nuova chiave di svolta adottata dal film. Sono i suoi dubbi e le sue incertezze ad essere motore della storia, uniti al suo senso del dovere. Molto bella ad esempio la scena in cui K si presenta dinnanzi alla creatrice di memorie, per comprendere se i suoi ricordi siano finti o reali.
Tra gli attori, oltre a Ryan Gosling e alla giovane attrice di orgini cubane Ana De Armas che buca lo schermo, di cui si diceva, spiccano: Harrison Ford, che dimostra come sempre notevole carisma, affatto intaccato dall’età; Robin Wright, prestata con frequenza alla fantascienza (ad es. in The Congress) e Carla Juri nei panni di Ana Stelline. I personaggi sono ben indirizzati, anche quello di Jared Leto, con funzione per lo più scenica. L’unico meno convincente è quello di Luv, Sylvia Hoeks, cyborg distruttivo alle dipendenze di Wallace, un po’ stereotipato. A parte questo e qualche passaggio intermedio delle indagini, non del tutto chiaro, la trama risulta coerente e complessivamente più compiuta del precedente Balde Runner. Se c’era, intatti, un aspetto controverso e opinabile della pellicola del 1982, era appunto il finale, poco chiaro e improvvisamente simbolico, per questo non di semplice comprensione. Proprio sulla base di queste premesse è stato possibile un sequel. In tal senso la pellicola di Villenueve riprende perfettamente le file del discorso, senza forzature. Il protagonista assoluto del film è, infatti, K, non Rick Deckard, pure presente, come si evince dal trailer. E’ la sua vicenda ad essere al centro della narrazione noir, orchestrata con mestiere dal regista, che fa poi incontrare i due Blade Runners.
Un altro merito del film è quello di essere riuscito a focalizzarsi su uno dei temi fondamentali del romanzo di Philip Dick: il dubbio costante di avere un’identità diversa rispetto a quella che da sempre si riteneva di possedere. Chi è davvero umano? Chi è davvero androide? E soprattutto: cosa significa davvero essere umani? Questi alcuni degli interrogativi fondamentali disseminati nel corso del film e delle indagini del protagonista. Intelligente l’incipit narrativo, che crea il mistero fondamentale da scigoliere e fa decollare la trama su un’idea nuova, inedita sia nella precedente pellicola che nel romanzo: la possibilità che gli androidi possano riprodursi. In conclusione, quindi, la nuova fatica di Villenueve mantiene le aspettative che si erano create al riguardo ed il regista canadese si conferma un nuovo autore di culto per la fantascienza, come dimostra il suo prossimo impegno, forse più difficile di tutti i precedenti: realizzare un film su “Dune”, il capolavoro fantascientifico di Frank Herbert, un’opera che ha visto tentare diversi registi (tra cui il progetto fallito di Alejandro Jodorowsky, su cui è stato fatto anche un documentario nel 2013), famosa per la sua complessità e per le sue suggestive ambientazioni.