De Andrè: l’avanguardista dai testi ironici e realistici

“Lessi Croce, l’Estetica, dove dice che tutti gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti, dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante”. (Fabrizio De Andrè)

Il 18 febbraio del 1940 nasceva a Genova quello che sarebbe diventato uno dei più grandi cantautori italiani: Fabrizio De Andrè. Si è fatto portavoce delle storie di ribelli, emarginati, prostitute e persone ai margini della società. Ha raccontato l’uomo, definendone i contorni ed ogni sua sfaccettatura: i vizi, le virtù, le debolezze e le emozioni. Il suo anticonformismo e il cinismo l’hanno reso celebre nei salotti-bene di Genova ed il suo crudo realismo ed il linguaggio moderno gli hanno valso l’appellativo di avanguardista su molte testate giornalistiche. Con le sue ballate, sospese tra il mito e la realtà, è stato in grado di stravolgere i canoni della canzone italiana.

Ed ha sfidato gli arroganti con la sua sferzante ironia andando sempre  “in direzione ostinata e contraria”. Può essere definito come un poeta non allineato, il Bastian contrario della canzone italiana, che attraverso la forza dissacrante dell’ironia ha distrutto ogni convenzione. Ha tacciato i “benpensanti”, i farisei, i boia, i giudici forcaioli, i re cialtroni di ogni tempo. Il suo era  un disperato messaggio di libertà e di riscatto contro “le leggi del branco” e l’arroganza del potere. Non è un segreto, infatti, che fosse sostenitore dell’anarchismo e promuovesse, appunto, libertà ed uguaglianza dei diritti.

Si lamentano degli zingari? Guardateli come vanno in giro a supplicare l’elemosina di un voto: ma non ci vanno a piedi, hanno autobus che sembrano astronavi, treni, aerei: e guardateli quando si fermano a pranzo o a cena: sanno mangiare con coltello e forchetta, e con coltello e forchetta si mangeranno i vostri risparmi. L’Italia appartiene a cento uomini, siamo sicuri che questi cento uomini appartengano all’Italia?”

La sua intera produzione è stata caratterizzata da un costante rinvio alla storia sociale e politica del paese, ma anche da riferimenti letterari. Per le sue ballate cupe ha attinto dalle più disparate fonti: dalle ballate medievali alla tradizione provenzale, dall'”Antologia di Spoon River” ai canti dei pastori sardi, da Cecco Angiolieri ai Vangeli apocrifi, dai “Fiori del male” di Baudelaire al Fellini dei “Vitelloni”. De Andrè non ha mai seguito le mode, ma è stato in grado di anticipare il futuro rimanendo, così, immortale.  La denuncia dell’ingiustizia, dell’ipocrisia del potere, della guerra, le vicende delle minoranze emarginate e perseguitate, i destini collettivi dei popoli rom, dei nativi americani, dei Palestinesi, così come una vasta galleria di singoli personaggi costituiscono il centro di queste e altre opere. Ha subito una forte influenza  dalla scuola d’oltre Oceano di Bob Dylan e Leonard Cohen, ma ancor più da quella francese degli “chansonnier” ( Georges Brassens su tutti).

Noi cantastorie andiamo in giro sollevando la polvere dai fatti memorabili, cerchiamo di farne mito o leggenda (abbiamo, a differenza dei giornalisti, la licenza di stravolgere) e se ci riusciamo davvero possiamo diventare OMERO, se non ci riusciamo per niente andiamo a comprare i giornali nelle edicole”.

Nel 1969 scrisse la Buona Novella. Erano i periodi delle lotte studentesche e le persone meno attente, a detta di De Andrè, considerarono quel disco anacronistico. In realtà non capirono che quello che Faber aveva fatto con la Buona Novella voleva essere un’allegoria: un paragone fra le istanze della rivolta del ’68 e le istanze, spiritualmente più elevate ma simili da un punto di vista etico-sociale, innalzate da un signore, ben millenovecentosessantanove anni prima, contro gli abusi del potere, contro i soprusi della autorità, in nome di un egualitarismo e di una fratellanza universale. Non a caso De Andrè definisce Gesù di Nazareth il più grande rivoluzionario di tutti i tempi.

Quando ho scritto l’album non ho voluto inoltrarmi in strade per me difficilmente percorribili, come la metafisica o addirittura la teologia. Poi ho pensato che se Dio non esistesse bisognerebbe inventarselo, il che è esattamente quello che ha fatto l’uomo da quando ha messo piede sulla terra”.

Nel 1971 pubblicò l’album “Non al denaro, non all’amore né al cielo“, liberamente tratto dall’Antologia di Spoon River. Scelse nove delle 244 poesie e le trasformò in altrettante canzoni: The HillDormono sulla collina, Frank Drummerun matto, Selah Livelyun giudice, Wendell P. Bloydun blasfemo, Francis Turnerun malato di cuore, Dr. Siegfried Isemanun medico, Trainor, the druggistun chimico, Dipplod the opticianun ottico, Fiddler Jonesil suonatore Jones.

Le nove poesie scelte toccano fondamentalmente due grandi temi: l’invidia (Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore) e la scienza (Un medico, Un chimico, Un ottico).

In questi due gruppi sono presenti delle simmetrie: il giudice perseguitato da tutti trasforma la sua invidia in sete di potere e si vendica, il chimico è tanto preso dalla scienza e dalla ricerca di un ordine perfetto da essere incapace di amare. Il malato di cuore rappresenta l’alternativa all’invidia, riuscendo a vincere questo sentimento grazie all’amore invece di lasciarsi trasportare dall’egoismo. I buoni propositi del medico vengono schiacciati dal sistema che lo obbliga a essere disonesto, mentre l’ottico vuole trasformare la realtà e mostrarci un'”altra” più vera.

Il suonatore Jones è l’unico in questa raccolta di poesie a cui De André lascia il nome. Infatti, mentre nelle poesie originali di Edgar Lee Masters ogni personaggio ha un nome e un cognome, i titoli delle canzoni di De André sono generici per sottolineare che le storie di questi personaggi sono esempi di comportamenti umani che si possono ritrovare in ogni epoca e in ogni luogo. Il suonatore Jones è unico, rappresenta l’alternativa alla vita vista come lotta per raggiungere i propri scopi. Ha sempre  fatto quello che più gli è piaciuto ed è per questo muore privo di rimpianti.

È evidente come il suonatore Jones era per  De André un modello, un personaggio al quale avrebbe voluto somigliare. Per Jones la musica non è un mestiere, è una scelta di libertà; anche De André, soprattutto negli ultimi anni, ha cercato di svincolarsi dalla prigione della musica come mestiere, pubblicando gli ultimi album a una distanza di sei anni uno dall’altro e riducendo le apparizioni in pubblico.

Io ho tentato in tutti i modi di poter essere un uomo. Avrei potuto esprimermi per esempio attraverso la coltivazione dei fiori se fossi vissuto ad Albenga, oppure attraverso l’allevamento delle vacche se non mi avessero venduto di soppiatto una fattoria che avevano i miei nel ’54. Mi è accaduto di fare il cantautore. Il fatto di diventare un artista, in qualche maniera, ti impedisce di diventare uomo in maniera normale. Quindi credo che ad un certo punto della tua vita tu devi recuperare il tempo che hai perduto per fare l’artista per cercare di diventare un uomo”.

Sarà proprio il suonatore Jones a fare da contrappeso, in questo disco, agli altri personaggi: gli Indicherà la vera via per felicità. Vive in campagna, lontano da tutto e da tutti, assaporando la meravigliosa musicalità che si esprime dalla natura. La morale della  “sua” Spoon River era proprio: “contentarsi di poco per vivere felici” come dice il suonatore.

In Italia sono gli anni caldi della contestazione. De Andre’ si professa anarchico e nel ’73  scrive  Storia di un Impiegato, uno dei suoi album più controversi. Il disco narra la vicenda di un travet che, sull’onda del Maggio francese, è contagiato dal fuoco rivoluzionario. È  una cupa profezia sulla degenerazione della contestazione in terrorismo che, di lì a poco, infetterà l’Italia. Mai così crudo e realistico. Uno stile che pervade il pezzo-manifesto dell’album “La bomba in testa“, brano drammatico e trascinante, che denuncia il conflitto lacerante tra l’ansia di cambiamento e la violenza.

Toccando il tema della politica l’estrema sinistra gli da’ del qualunquista; la destra lo accusa di propaganda eversiva. Ma lui si ostina a ripetere: “Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine orrendo… In realtà vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità“.

Ogni sua opera, ogni sua intervista o discorso pronunciato sul palco erano tutti  il frutto di un lavoro lungo e complesso,originato dal desiderio di comunicare senza equivoci. Nei suoi diari, infatti, si leggono tutte le annotazioni, frasi studiate accuratamente, persino i ringraziamenti. Era solito annotare qualsiasi cosa della sua vita, come era solito analizzare accuratamente  le letture dalle quali prendeva spunto per le sue opere: un lavoro meticoloso  alla ricerca di un solo termine, il migliore e più agile, in grado di restituire tutta l’idea originale.

Fabrizio è stato un grande organizzatore del lavoro altrui, perché le cose che realmente ha inventato o scritto sono percentualmente molto poche rispetto a quelle che lui ha preso e rivisitato, firmandole o meno”. (Francesco De Gregori)

Oggi sarebbero stati 77. Buon compleanno Faber.

Francesca Valentina Troiano