Bird box: l’umanità bendata nel thriller apocalittico Netflix

Buona suspance nel nuovo thriller apocalittico – paranormale della regista Susanne Bier, “Bird box” che già dopo la prima settimana dalll’uscita è stato visto su Netflix da oltre 45 milioni di account. Numeri da record, che dimostrano il cavalcante successo della distribuzione operata dal colosso dello streaming (distributore tra l’altro di diversi film d’autore come 22 luglio di Greengrass e Roma di Cuaron).

In Bird Box, attraverso un racconto temporale che fa convergere progressivamente il passato con il presente, viene raccontata la storia di una donna, Malorie (Sandra Bullock), e della sua sopravvivenza in un mondo segnato all’improvviso da un male sconosciuto e letale: si tratta di una misteriosa entità invisibile che soffia come un vento, posandosi su tutto e su tutti. Chi la vede, viene preso da uno sconforto tale da desiderare all’istante di morire e uccidersi, senza alcuna possibilità di scampo. Per questo motivo per sopravvivere è essenziale bendarsi gli occhi ed evitare di osservare tale presenza, che di per se è incorporea e sembra agire più che altro sulla mente degli esseri umani portandoli ad una rapida e sfrenata follia di autodistruzione. Una calamità apocalittica, alla quale sembra impossibile scampare.

Concentrandosi fin da subito sulle vicende della protagonista femminile più che sulla dimensione globale del fenomeno apocalittico  (un po’ come nella Guerra dei Mondi di Spielberg, in cui protagonisti sono un padre e i suoi figli in fuga dall’invasione aliena), la regista Susanne Bier si muove con destrezza e cautela nello sceneggiare la storia.

La trama, infatti, è per molti versi già vista, si pensi innanzitutto a “E venne il giorno” di Shyalaman (regista del Sesto senso) , in cui delle tossine trasportate dal vento provocano dei raptus suicidi che si diffondono in modo virale tra le persone; oppure a La città verrà distrutta all’alba, in cui improvvisamente gli esseri umani impazziscono trasformandosi in terribili assassini, o di World War Z, in cui un virus letale trasforma gli esseri umani in Zombie, cosa che avviene anche in Io Sono Leggenda (remake del notevole Occhi bianchi sul pianeta terra del 1971). In tutti i film citati, però, a differenza che in Bird Box si parla sempre di un contagio: una malattia che si propaga da malato a malato, determinando epidemie contagiose di spropositate dimensioni.  Nel film di Susanne Bier, invece, e questa è forse l’idea migliore della pellicola, ciò che provoca l’istinto suicida è il contatto visivo con la terribile entità che sta dilagando nel mondo: un contatto che per indurre alla morte, deve essere individuale e personale, non trasmissibile come se si trattasse di una malattia (un po’ come nell’horror Rec), quasi fosse un richiamo dall’aldilà, che fa vedere qualcosa di innominabile, tale da non poter essere sopportato senza conseguenze da chi ne è stato spettatore. Solo i folli, infatti, sono immuni dalla morte, e anzi si compiacciono dell’eterna visione che lo spirito provoca in loro. Ciò provoca la necessità di bendarsi, di rendersi ciechi pur di non morire, come se si fosse dentro una scatola per uccelli (birdbox), con qualche buco per spiare il mondo che sta fuori, evitandone  però il contatto diretto.

La regista punta più sulla suspance che sugli elementi orridi della vicenda, non soffermandosi particolarmente sulle modalità del suicidio delle vittime di questa calamità (meccanismo invece ben più presente in E venne il giorno); ciò che le interessa è più che altro l’ incombenza costante della minaccia senza nome che aleggia fuori dagli edifici e, soprattutto, le strategie che gli uomini, le donne e i bambini protagonisti sono costretti ad utilizzare per non cadere vittima dell’istinto suicida, sempre in agguato attorno a loro.

Come in molti film apocalittici si tratta di cronache di sopravvivenza, in cui tutto sommato, per scelta voluta della regista gli esseri umani non si abbrutiscono più di tanto, ma rimangono comunque attenti ai propri affetti e ai propri valori.  Anche la componente claustrofobica è abbastanza smorzata nel film. Nel suo essere asciutto e in fondo moderato, considerato il tema che poteva essere trattato con modalità ben più oscure e disturbanti,  Bird Box si dimostra scorrevole ed è condito con buone dosi di suspance, soprattutto legate all’idea di muoversi alla cieca in un mondo insicuro e ostile (il percorso sul fiume, la necessita di andare fuori in cerca di viveri), in cui anche un singolo sguardo “sbagliato” può essere letale. Ad arricchire il tutto anche il rapporto madre figli, chiave di volta del finale “speranzoso” della pellicola, che bisogna dire, è anch’esso asciutto e non reso, come a volte accade nel genere, attraverso rocamboleschi colpi di scena risolutori della minaccia in corso. Buona la prova di Sandra Bullock e John Malcovich.

Decisamente più conturbante, complesso e simbolico appare il film Annientamento, sempre prodotto da Netflix, che somiglia a Bird Box, per il tema dell’autodistruzione. Anche nel film di Alex Garland, con Natalie Portman, infatti, esiste un’entità aliena che provoca mutazioni nello spazio e nella mente di chi le sta attorno, mutazioni tali da spingere all’autodistruzione. Più vicino all‘horror metafisico che al thriller, Annientamento è un’opera forte, girata in modo sperimentale, che sconvolge con immagini crude e conturbanti, di grande potenza visiva, una pellicola d’autore, che amplifica notevolmente il tema presente in Bird Box, della distruzione di se stessi, perché lo analizza a partire dalla tematica del doppio e della proliferazione dei se.

 

Francesco Bellia