Vincitore del Leone D’oro a Venezia 75, l’ultimo film di Alfonso Cuaron, dal 14 Dicembre su Netflix è un racconto cinematografico in elegante bianco e nero, permeato da uno sguardo paziente e ondoso, che con garbo si sofferma sulla vita di una domestica messicana, che lavora nella casa di una benestante famiglia a Roma, un quartiere di Città del Messico.
La macchina da presa segue da vicino la tata, interpretata da Yalitza Aparicio, scelta con grande cura da Cuaron per questo importante ruolo, e descrive con attenzione i suoi continui spostamenti all’interno della casa, le sue occupazioni, le sue dolci attenzioni verso i bambini, i quattro figli della padrona di casa, che coccola come se fosse la loro madre-sorella.
La sua presenza in casa è silenziosa, ma costante, sia nei bei momenti in cui la famiglia è in totale armonia, riunita a tavola o davanti alla televisione, sia nei momenti di crisi, quando la famiglia comincia a spaccarsi e il padre e la madre sono sempre più lontani tra loro. La domestica è onnipresente e sa tutto, con uno sguardo non invasivo né giudicante, ma al contrario benevolo, in qualche modo rassicurante e confortevole. Perché in realtà lei contribuisce a fare da collante per questo nucleo familiare, in cui la figura del padre è sfuggente e passeggera e servono più madri (le domestiche, la nonna e la padrona di casa), per sopperire a tale mancanza. Ben presto nel film si scoprirà fino a che punto la tata sia un pilastro della famiglia, allo stesso modo di come la famiglia lo è per lei.
In parallelo, accanto alle storie della casa, Cuaron descrive anche la vita “segreta” della tata. Gli scherzi con l’altra domestica con cui condivide la camera, le uscite nel tempo libero, i suoi amori, la sua sessualità, i suoi sogni e le sue delusioni. Il suo desiderio-paura di diventare madre.
E’ proprio la maternità il tema fondamentale di Roma. Come lo sguardo di un bambino che ricorda piacevolemnte il passato, la macchina da presa di Cuaron segue la tata protagonista raccontando im modo personale e autobiografico, visto che il personaggio della protagonista è ispirato alla tata che ha cresciuto Cuaron quando era piccolo (proprio nel quartiere di Roma), la vita di questa ragazza che è madre, pur non avendo partorito figli ed è a sua volta figlia e sorella perché viene “adottata” e accudita dal nucleo familiare a cui ha avuto accesso.
Donne forti e amorevoli e bambini vivaci, sono questi i protagonisti positivi di Roma di Cuaron. Centrale è dunque il rapporto che lega i figli alle madri, così come la compresenza di entrambi all’interno del focolare domestico, che viene indagato nella sua spazialità, con morbidi movimenti di macchina che oscillano da destra a sinistra per poi girarsi intorno, in un pacato moto oscillatorio che ricorda molto le onde del mare, le stesse che compaiono alla fine del film nell’ultima e catartica prova da affrontare per la Tata, per comprendere il vero senso della maternità e all’inizio della pellicola con il fluire lento ma continuo dell’acqua sul pavimento di un cortile.
Negative, false, fatue e ridicole sono invece tutte le figure maschili. Innanzitutto il padre, perennemente atteso dai bambini e dalla madre. Notevole la scena in cui con la sua macchina troppo grande si destreggia con abilità per farla entrare nel cortile della casa. E’ così che l’uomo, il padrone di casa viene presentato agli spettatori, nella sua potenza e autorità fatta di auto ingombranti e sigari gassosi, ma ben presto si rivelerà per ciò che è realmente, un fantasma imbroglione che è a casa solo di passaggio, il cui affetto è passeggero, effimero e sfuggente.
Similmente il ragazzo della tata protagonista è un cultore dell’arte della spada, come l’automobile un simbolo di virilità, potere e affermazione maschile. Il regista ci mostra l’uomo in un nudo integrale, impegnato in una coreografia marziale da samurai. Ma il suo fascino sessuale, che conquista la giovane protagonista, in modo passionale e fisico, finisce per non essere infine autentico: più un mezzo di affermazione di se stesso che una dimostrazione d’amore o del saper amare.
E’ sempre il padre che infine manca nella narrazione di Cuaron. E’ una scelta voluta, probabilmente autobiografica, una scelta che si attua pienamente anche nella selezione degli ambienti in cui il film è girato. Anche se il titolo è Roma, infatti, Cuaron descrive soprattutto la dimora e in nucleo familiare, piuttosto di ciò che succede fuori.
Quando i protagonisti si spingono fuori dalla casa ciò che incontrano è sempre destabilizzante: la folla violenta durante una rivolata armata, la banda chiassosa che invade la strada, il mare tradimentoso che può anche affogarti, l’ospedale in cui puoi rischiare di morire e di smarrire i tuoi sogni. Solo il cinema è confortevole, come può esserlo la propria casa, la propria famiglia, la propria seconda madre (la tata). E’ chiara l’impronta personalissima che il regista lascia su questa sua opera, in cui come si diceva il padre-uomo è assente e diventa ridicolo (come nella scena dell’esercitazione militare).
Per il suo intento Roma somiglia ad Amarcord di Fellini: ne condivide la natura nostalgica e la necessità di rievocare i ricordi; ma le somiglianze rimangono qui. Lo stile adottato è radicalmente diverso, è quello ermetico di un bianco e nero morbido ed elegante che vuole parlare del passato, ma lo fa più con la contemplazione e la ricostruzione, che non con invenzioni cinematografiche visionarie, agro dolci, oniriche, ma anche intime come quelle di Fellini, in cui sogno e realtà si mescolano tra loro attraverso una resa visiva di rara originalità e di raro spessore.
Roma di Cuaron è un film girato con grande abilità registica, visivamente accurato, con una fotografia davvero bella da vedere. E’ intimo e familiare e pone una riflessione sulla maternità e sul rapporto madri e figli, come luogo sicuro in cui ripararsi dal mondo. E’ però come si diceva un film che fa della descrizione la sua arma principale. Più che realistico, è analitico della memoria del regista, nel senso che Cuaron usa la sua casa, o meglio il ricordo della sua casa, così come quello della sua tata per farne elemento cinematografico: se vogliamo quindi è una rielaborazione della propria infanzia secondo la personale visione filmica dell’autore. A tratti però questa visione è anche troppo personale e nascosta, tanto che molte cose sono più evocative per il regista che non per lo spettatore, che di Roma di Città del Messico non conosce molto e non ne saprà di più dopo la pellicola, proprio perché il film è girato in una casa piuttosto che in esterni. Questo un po’ un limite del film, la sua dimensione che alla fine appare volutamente circoscritta, mentre avrebbe potuto avere uno sguardo più ampio senza negare la componente familiare presente al suo interno.
Ben scelti gli attori, tra cui spicca senza dubbio la protagonista, Yalitza Aparicio, dal viso dolce, non un’attrice professionista, voluta fortemente dal regista per far rivivere sullo schermo il ricordo della propria nutrice. Molto probabili le candidature all’oscar. Interessante che un altro film sulla famiglia abbia vinto lo stesso anno a Cannes, il notevole Un affare di famiglia di Kore’eda.