Distribuito in Italia da Netflix, “22 Luglio”, che ha partecipato anche a Venezia 75, è l’ultimo di film del talentuoso regista Paul Greengrass (già autore della famosa saga di Jason Bourne, nonché del bel film Captain Philips), una pellicola di grande spessore e contenuto, che si impone davvero come uno dei migliori film di questo regista e come una delle migliore pellicole distribuite su Netflix.
Famoso per il suo cinema adrenalico e d’azione, il cineasta inglese qui veste un ruolo diverso dal solito. Utilizza la sua grande capacità di tenere sempre alto il ritmo del racconto cinematografico (qualità essenziale per dirigire film d’azione di un certo calibro) per narrare qualcosa di molto più profondo: la destabilizzazione che il fanatismo di un singolo uomo può causare ad una comunità e ad una nazione, ma anche il sofferto bisogno di rinascere che può essere appreso da chi ha visto in faccia la fredda e meccanica crudeltà della morte, indotta senza un reale motivo, se non per provocare il terrore.
Tutti conoscono la terribile vicenda narrata nel film, la strage che l’estremista di destra Anders Breivik provocò il 22 luglio del 2011, uccidendo a sangue freddo molti studenti in vacanza nel campo estivo dell’isola norvegese.
Un atto programmato con psicopatico cinismo, da parte di un uomo con chiari problemi psicologici, alla disperata ricerca di attenzione da parte dei media, come dimostra anche la bomba da lui piazzata davanti alla sede del ministero degli interni, causa anch’essa di svariate vittime.
Con analitica precisione e dinamismo il regista inglese riprende le varie fasi dell’attentato e fa la scelta molto intelligente di raccontarlo quasi come se avvenisse in diretta, senza dilatare l’avvenimento durante tutto il film, ma rappresentandolo con grande realismo, riproducendone quasi, nella pellicola, la durata effettiva o comunque quella, che nel momento in cui furono eseguiti gli attentati, fu percepita da chi vi era coinvolto, dai familiari e dai media. Questo comporta che la strage di Utoya sia descritta in 30 minuti.
Ciò che emerge da questa scelta registica è la velocità di esecuzione della strage da parte di Breivik , un elemento che lascia sgomenti, anche più della crudezza delle immagini, su cui il regista non indugia particolarmente, preferendo la veridicità nella sequenza dei fatti e le conseguenze che questi hanno comportato, piuttosto che la spettacolarizzazione dell’evento in se.
Fin da subito inoltre, piuttosto che adottare una narrazione prevalentemente corale dell’evento, Greengrass pone le basi per un dualismo di fondo, che attraverserà tutto il suo film, unendo il destino di Breivik, interpretato da un notevole Anders Danielsen Lie a quello di Viljar, un altrettanto bravo Jonas Strand la cui interpretazione lascia davvero il segno. Se il primo è un fanatico di destra con gravi disturbi psicologici, che ha scelto Utoya per colpire il multiculuralismo “lì dove fa più male”, cioè uccidendo i figli e il futuro di chi è a favore dell’integrazione; il secondo, Viljar è uno dei ragazzi coinvolti nell’attentato, che con incredibili sofferenze sopravvive alla strage. Il suo corpo segnato dalle ferite diventa ben presto metafora di una Norvegia piegata in due da un attentato imprevisto e di aberrante ferocia. Come il ragazzo la nazione stenta a rimmetersi sulle sue gambe, ha paura e si sente in colpa per ciò che non è riuscita ad evitare. Tramite l’interpratazione sofferta e convincente di Jonas Strand (Viljar) il regista mostra con grande verosimiglianza e complessità psicologica tutte le crepe che un atto terroristico può produrre in un individuo e in un popolo.
La narrazione asciutta e la fotografia plumbea, come i cieli della Norvegia, rendono più che mai credibile l’intera vicenda.In parallelo viene seguito il processo di Breivik, che viene visto anche dal punto di vista del suo avvocato, un garantista di sinistra. La psicologia dell’attentatore non viene mai banalizzata con spettacolarizzazioni, ma si cerca invece di ricostruirla tramite le indagini fatte dal suo avvocato per costruire la sua difesa. Se all’inizio il suo potere e la sua sicurezza sprezzante davanti alla legge, ai giudici e ai media è quasi un ulteriore ferita nella già ferita Norvegia, tanto che la democraticità del sistema giudiziario norvegese sembra soccombere con ingeuità e impotenza dinnanzi allo sfrontato e astuto cinismo del terrorista; alla fine però il regista fa emergere un altra componente fondamentale della contorta e inafferrabile psicologia di Breivik, il suo assoluto isolamento e il disperato bisogno di attenzione. Nel tentativo di diventare un leader e un esempio per gli estremisti di destra in Europa, egli infatti, si assumerà la responsabilità penale dei reati da lui commessi, rifiutando volontariamente l’infermità mentale, che pure avrebbe potuto ottenere. La conseguenza finale è di essere condannato all’isolamento a tempo indeterminato (pena che ancora oggi sta scontando).
Davvero mirabile la scena del processo in cui dopo aver a lungo esitato Viljar testimonia in tribunale raccontando quanto gli è successo, sfidando la sua paura, la propria fragilità e l’uomo che lo ha quasi ucciso. Fulcro di tutto il film ed apice del dualismo tra Viljar e Brievik, d cui si diceva, questo scontro finale, fatto di sguardi e silenzi da una chiave di lettura estremamente potente dell’intera pellicola. Un inaspettato messaggio di speranza, che viene maturato da Viljar, ma anche dalla Norvegia e dall’Europa, nell’aula: la consapevolezza che credere nell’integrazione e nel futuro fa in modo che si formino nuove comunità, al contrario del razzismo e della xenofobia, le quali portano inevitabilmente all’isolamento, la sorte che spetta infine a Brievik, abbandonato oltre che dai suoi idoli di estrema destra, che lo disconoscono, anche dalla madre che si rifiuta di testimoniare in sua difesa.
Un film forte, asciutto, deciso, emozionante e complesso quello di Greengrass, che non rinuncia alle ambiguità, ma si cimenta coraggiosamente nel descriverle, senza però indugiare nella spettacolarizzazione. E’ chiaramente un film contro l’estremismo, ma anche una pellicola che intelligentemente vuole suscitare interrogativi. Come si diceva il messaggio finale è di speranza, una speranza non banale però, che va conquistata lottando e migliorando se stessi e gli altri.
Senza dubbio il film più maturo del regista, che qui riprende in mano il suo passato di documentaristi a cui unisce però il ritmo incalzante di un film d’azione. Una pellicola che assume oggi grande spessore, perché la vicenda della Norvegia va ovviamente oltre i confini di questo stato, si riferisce alla situazione odierna in Europa e nel Mondo. Interessante poi che sia stato proprio un regista britannico a raccontare questa storia. E’ senza dubbio tra i migliori film del catalogo Netflix e sarebbe davvero auspicabile che sia candidato agli Oscar 2019, per i quali potrebbe competere e vincere con merito.