Antonio Maspes, quel temerario sulla bici volante

Sangue, sudore e polvere: il passato di una città lastricato dai residui bellici, sbiadiva pian piano nel presente del duro lavoro e nell’aria impregnata dal pulviscolo dei cantieri in attività, si presagiva il futuro.

Era una Milano attraversata da una scossa di energia vitale, quella del dopoguerra, che reagiva con la ricostruzione dei suoi simboli architettonici offesi dalla barbarie della guerra, tra cui, rimesso da poco a lucido, ricominciò a brillare il suo storico impianto sportivo: inaugurato nel lontano 1935, il velodromo Vigorelli rappresentava il tempio italiano del ciclismo su pista. Fu proprio su quell’ovale listato di pino di Svezia, che lungo i suoi 399,700 metri cominciò a scorrere, con la colonna sonora del soffuso ronzio della sua bicicletta, la leggenda di Antonio Maspes, uno dei pistard più forti di tutti i tempi, con i suoi magnifici sette titoli mondiali.

In quell’edificio tra le tante specialità si svolgeva l’esercizio assai difficile, complicato e pericoloso della velocità su pista: qui un giorno del 1946, attratto dal rombo delle moto usate nelle gare degli stayer, entrò appena quattordicenne l’imberbe Antonio che, ancora ignaro del suo talento, si sarebbe poi perdutamente innamorato di quella disciplina.

Strani amori cui a quei tempi erano soggetti gli uomini che bazzicavano i palazzetti, in specie i velocisti: funambolici e imprevedibili, avventurieri del tutto o del niente, capaci di esibire sprazzi di classe così come colpi di coda imprevisti, ora sornioni disegnano ghirigori sul lucido parquet e subito dopo guizzano come il cobra, pronti allo scatto a sorpresa che di solito avviene arrampicandosi presso la balaustra a prendere slancio. Eccoli, nella fase finale del loro duello, che temerari si buttano giù in picchiata, mulinano forsennati le gambe nodose e all’ultimo spasimo prima della linea bianca, ingobbiti dallo sforzo, inarcano le reni.

Un copione base per qualsiasi buon professionista ma trama e svolgimento riguardavano l’interprete di turno e quando andava in scena quel determinato e talentuoso milanese, la recita cambiava. Infatti, egli possedeva tra l’altro anche una tecnica particolare propedeutica per praticare, il Surplace: il suo marchio di fabbrica che più di una volta lo cavò d’impiccio. Questa tattica un po’ subdola, figlia di una raffinata padronanza della bicicletta, aveva lo scopo rimanendo fermi sul posto che fosse l’avversario a passare avanti costringendolo a tirare la volata e poi sfruttare il vantaggio della scia per batterlo in rimonta.

Certo raccontando le gesta di Antonio Maspes, che fu l’anello di congiunzione tra due epoche, si narra anche l’evoluzione storica della velocità su pista che nel tempo pur mantenendo intatto il suo significato antico si sperde poco a poco nelle tante novità delle moderne versioni che prevedono tutta una serie di specialità collaterali di effetto sicuro e di consumo garantito.
Nel luccicante albo d’oro di questa specialità, tra i plurivincitori dapprima spicca il nome del belga Joseph Scherens, detto Jef, dominatore assoluto dello sprint dalla metà degli anni trenta fino al primo dopoguerra, conosciuto col nomignolo di Poeske (piccolo gatto), per come accelerando in progressione piantava poi lo scatto felino con cui finiva le sue arrembanti volate che gli fruttarono ben sette titoli mondiali.

Cinquant’anni dopo si sarebbe inaspettatamente presentato sulla ribalta un figlio del sol levante: Koichi Nakano, un possente castigamatti della bicicletta muscoloso come Big Jim, capace di una grinta talvolta ai limiti della scorrettezza, incontrastato vincitore per dieci volte consecutive la maglia di campione del mondo.
E siccome in medio stat virtus, l’intervallo a cavallo tra gli speranzosi anni 50 e i rumorosi anni 60 fu per l’Italia il più bello poiché contrassegnato sette volte da un apostrofo colorato d’iride con la dicitura Antonio Maspes.
In dieci edizioni dei mondiali di velocità su pista, cui partecipò dal 1955 al 1964, proprio sulla pista di casa, il mitico velodromo Vigorelli, cominciò a vincere. Continuò l’anno dopo, poi vennero le due consecutive vittorie del suo antagonista principe tal Michael Rousseau, quello del famoso surplace nel 1960 durato ben venticinque minuti e conclusi da Antonio con una volata imperiale: dieci secondi e otto decimi negli ultimi 200metri e record del mondo per allora. Il suo ininterrotto dominio ricominciò dal 1959 per finire quattro anni dopo per mano di un altro italiano Sante Gaiardoni: sprinter dalle geniali improvvisazioni, quel satanasso veneto, lo sorprese alla terza prova, partendo secco nel corso del secondo giro dei tre previsti.

Rocourt 1963, fu dunque l’unica eccezione che confermava la regola delle finali vinte. E, infatti, l’anno dopo a Parigi con l’ultima sgommata l’orgoglioso meneghino si riprese il titolo.
Il re del surplace rimase per sempre immobile, un giorno di ottobre dell’anno duemila, aveva già oltrepassato la striscia verniciata di bianco che significava il confine tra terra e cielo. Intitolare a suo nome la pista milanese dei suoi sogni, quel mitico Vigorelli, sulla cui superficie levigata si sono esibiti anche eccellenti stradisti come Coppi, Anquetil, Baldini, Riviere e si sono avvicendate romantiche Sei Giorni ciclistiche, è stato come riservagli un suo personale Posto delle fragole. Un luogo dell’anima dove tra ricordi, fatti e persone rivedi ciò che eri, quello che sei diventato e come ti ricorderanno.

Vincenzo Filippo Bumbica