Alzheimer: sulle tracce dei ricordi perduti

Perdere i ricordi è qualcosa che spaventa, perdere i ricordi è quello che succede a chi sviluppa il Morbo di Alzheimer, una malattia neurodegenerativa che porta alla progressiva perdita della memoria fino alla perdita di un gran numero di funzioni cognitive. Nonostante le limitazioni fisiche causate dalla malattia siano numerose, la perdita della memoria è considerata tra quelle capaci di peggiorare notevolmente la qualità della vita del paziente che improvvisamente si trova tagliato fuori dalla propria vita, da tutto ciò che ha costruito nel passato. Incredibilmente, nelle fasi iniziali della malattia il paziente perde la memoria a breve termine, non ricorda dove ha parcheggiato l’automobile, ad esempio, o il tratto di strada appena percorso. Col peggiorare della malattia, saranno anche le memorie più radicate ad essere “cancellate” fino a dimenticare anche i nomi ed il viso dei propri più stretti familiari. Sebbene recenti studi parlino della possibilità che l’Alzheimer sia causato da prioni, la teoria più accreditata sul momento parla di un accumulo di proteine mutate che danneggia progressivamente ed irreversibilmente i neuroni.

Uno studio recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature propone una nuova interpretazione del fenomeno e dimostra come sia possibile, almeno nel modello animale, recuperare parte delle memorie perdute, per quanto solo nelle fasi iniziali della malattia. I ricordi dei pazienti Alzheimer, infatti, non sarebbero semplicemente cancellati, ma persi nel senso letterale del termine: difficili da trovare nel “deposito della memoria”. Questo a causa della progressiva perdita della plasticità sinaptica, la singolare capacità del sistema nervoso di rimodellarsi, modificando l’intensità delle connessioni tra i neuroni, istaurandone di nuove o rimuovendo quelle in disuso. La mancanza di plasticità impedisce il recupero dei ricordi attraverso la formazione di piccole e temporanee connessioni, note come spine dendritiche che, in un cervello sano, vengono a formarsi ogni qual volta è necessario recuperare un ricordo.

Tracciare la strada di un ricordo nella mente di un uomo è più difficile di quanto si pensi. È necessario affidarsi alla percezione che di esso ha il paziente, tuttavia, nel caso dell’Alzheimer, questo è spesso difficile. Per questa ragione gli scienziati si sono affidati ad un modello animale, il topo, con una mutazione in grado di causare una patologia simile all’Alzheimer. Nel modello animale, è possibile sfruttare l’associazione di uno stimolo ad un comportamento e questo verrà conservato come ricordo nel tempo. Un topo mutato non sarà in grado di conservare quel ricordo e si comporterà come se non avesse mai incontrato alcun tipo di stimolo. I ricercatori hanno stimolato nelle cavie il processo di formazione delle spine dendritiche attraverso una tecnica innovativa nota come optogenetica che sfrutta la luce per attivare o forzare l’interazione di specifiche proteine modificate per essere fotosensibili. In questo modo, attraverso la stimolazione luminosa, è stato possibile aumentare l’attività neuronale ed il numero di spine dendritiche nei topi affetti fino a renderlo paragonabile a quello dei topi sani.  I topi Alzheimer hanno così recuperato così i propri ricordi per i successivi 6 giorni.

Dheeraj Roy. Neuroni ingegnerizzati per la produzione di una proteina fotosensibile (in verde). Nature,2016

Purtroppo non è ancora chiaro come riprodurre un simile trattamento nell’uomo, principalmente a causa dell’impossibilità attuale di far uso dell’optogenetica nel corpo umano. Alcuni risultati, ottenuti nel corso di trattamenti per altre patologie, suggeriscono, tuttavia, che alcuni degli effetti discussi nello studio di cui abbiamo parlato possano essere riprodotti attraverso, l’elettrostimolazione dell’ippocampo, sede della memoria a breve termine. La ricerca procede e con essa i progressi in campo biomedico. Il passo è lento, ma sicuro e certamente aprirà la porta ogni giorno su nuove e interessanti prospettive.