1917: L’empatia delle trincee secondo Sam Mendes

Se l’avessimo visto prima della fine del 2019, di certo sarebbe rientrato nei migliori Film dell’anno appena trascorso (qui il nostro articolo), anzi di certo sarebbe stato il primo di cui avremmo scritto, trattandosi di una gemma preziosa del cinema contemporaneo. Stiamo parlando di 1917, (già vincitore ai Golden Globes 2020) diretto da Sam Mendes. Non vi sono dubbi, un capolavoro.

Un’opera che esalta il puro cinema: cioè la capacità di infondere alle immagini contenuti tangibili, di far immergere totalmente lo spettatore in mondi, storie, sensazioni, attimi, emozioni, pensieri, per fargli credere che egli non sia qualcosa di distinto dalla storia che si sta raccontando, che egli sia lì sulla scena insieme agli attori.

E gli attori? Stanno recitando davvero? L’ambiente che li circonda è davvero artificiale?  Non è così ovviamente. E’ tutta un’illusione, l‘illusione cinematografica, l’ abc del cinema si direbbe, ma Sam Mendes riesce ad attuarla come pochi, focalizzandosi non tanto sull’originalità del racconto – la storia in fondo è lineare, sebbene sorretta dalla approfondita ricerca e scrittura dello sceneggiatore Wilson Cairns (e dello stesso Mendes) – ma focalizzandosi molto sull’immagine e sull’immersione totale dello sguardo cinematografico nelle sequenze che danno vita al film e al racconto. In questa pellicola, la cui regia come spiegheremo anche più avanti, è frutto di un lavoro imponente,  di una cura maniacale e un sincretismo che da’ i brividi tra regia, Fotografia, Montaggio e colonna sonora, si arriva ad utilizzo stupefacente della macchina da presa. Se il racconto è classico, la regia è rivoluzionaria, e non manca di essere vicina ad una dimensione per così dire videoludica, o meglio, accostabile alla realtà virtuale.

Girato interamente in esterni, 1917 racconta la storia dei caporali Schofield (il convincente George MacKay) e Blake (Dean-Charles Chapman, già Tommen Baratheon in Il trono di spade), ai quali viene ordinato di attraversare la Terra di Nessuno. Siamo nella Prima guerra mondiale, una guerra di posizione in cui la Terra di nessuno è lo spazio che divide le trincee, un’area proibita, mortifera, recintata, insidiosa e completamente esposta: una trappola a cielo aperto. I due caporali devono attraversarla per consegnare un’ importante lettera al Colonnello Mackenzie: la missiva gli ordina di sospendere l’attacco. Egli infatti non sa che i suoi soldati stanno cadendo in un’imboscata dei tedeschi, i quali, hanno eretto una nuova trincea più distante e stanno volutamente spingendo i soldati ad attaccare, per poi finirli, una volta giunti nei pressi della nuova barriera. Ansioso di salvare suo fratello, militante nel battaglione di Mackenzie, Blake è pronto a tutto pur di compiere questa folle e impossibile missione. Sceglie Schofield come suo fidato compagno. La loro missione è una corsa contro il tempo. Devono però essere anche cauti, non bisogna commettere errori: ogni passo falso può farli avvistare dai nemici o farli cadere nelle innumerevoli trappole lasciate dai tedeschi.

Come si evince dalla trama siamo dinnanzi ad un film dalle dinamiche thriller, più che in un film di guerra tradizionale: alla coralità dei war movies si sostituisce l’assoluta identificazione con i due protagonisti della storia. 1917 è la loro storia, il loro passaggio da un punto A ad un punto B, la loro fragile traversata attraverso le terre devastate dalla guerra.

La sublime fotografia di Roger Deakins, storico collaboratore di Mendes e già premio oscar, ci fa addentrare in una geografia martoriata e distorta, frutto della logorio bellico della Prima guerra mondiale. Una geografia in cui non è possibile distinguere i cadaveri dal fango, anzi essi sono parte integrante dei luoghi, a volte diventano addirittura punti di riferimento (come l’uomo inginocchiato che segna l’inizio di un passaggio). Un mondo a parte, arido, ostile, conturbante, a tratti fantasmagorico o infuocato come l’inferno (il Geenna citato dal generale che invita i due caporali ad intraprendere la missione).

Niente è sicuro, non vi sono confini. L’orientamento è dato dalle trincee, l’unica realtà tangibile per i soldati, spesso portati alla follia dall’ossessività logorante di stare rintanati nelle buche. In questo assurdo contesto, reso con maestria da regia e fotografia, i luoghi assumono però anche un’ indubbia suggestione.  Un’ambigua bellezza (che ha del ballardiano), come il Bosco di Croissillers, destinazione finale dei due soldati; uno strano fascino delle rovine, che a volte possono essere rifugi, come i focolari inaspettati in una città abbandonata. Nell’attraversamento di ognuno di questi nuovi confini, prima inesistenti e nati con le trincee, ogni passo è una conquista, ogni ponte superato un sospiro di salvezza. La vita è appesa ad un filo, l’ombra della morte è su tutto e gli scontri sono goffi e violenti. Sono lotte nel fango, fughe impacciate, proiettili vaganti, niente eroismo, niente retorica, solo la cruda verità della guerra: cercare di eseguire gli ordini, di sopravvivere e di salvare altre vite.

Film decisamente anti-militaresco, 1917 si alimenta di storie vere dei soldati della Prima guerra mondiale, alcune delle quali sono state tratte dai racconti del nonno di Sam Mendes, a cui è dedicato questo film. Da quei ricordi, da quei diari deriva il realismo dei contenuti e della vicenda raccontata, che ha dinamiche di suspance elevatissime, a tratti quasi insopportabili, per l’estrema condivisione-emozionale conferita dalla regia. Capiterà spesso di sobbalzare o di soffrire davvero come i protagonisti, frutto di un’immersione totale che raramente si vede al cinema.

 La regia di questo film è davvero degna di entrare nella storia del cinema contemporaneo. Stiamo parlando di una pellicola girata attraverso lunghi piani sequenza, in cui nessun ambiente si ripete mai due volte e si ha l’impressione che sia girato tutto dal vivo, senza post produzione e montaggio (che in realtà c’è stato ed è anch’esso pregevole). 1917 è stato girato  interamente all’esterno con luce naturale (con lunghi periodi di inattività per aspettare il clima plumbeo necessario per rendere plausibile la continuità delle scene), il tutto per dare l’impressione che la vicenda di Blake e Schofield si svolgesse in tempo reale.

Mirabili carrelli seguono pedissequamente i due protagonisti che si aggirano nelle labirintiche trincee (bello il carrello all’indietro che sottolinea al livello ideologico l’idea rintanarsi e di retrocedere propria della guerra di posizionamento). La macchina da presa si sposta morbidamente seguendo lo sguardo e il movimento dei due caporali. Comunica con loro e con lo spettatore, oppure corre con loro, si ribalta spiando con terrore gli angoli, i punti ciechi, gli anfratti in cui può celarsi la trappola o l’improvvisa esplosione (il tutto senza entrare quasi mai in soggettiva). La lunghezza delle scene e la pianificazione maniacale dello spostamento della telecamera nelle location del film dà risultati eccellenti. Sembra di essere in un simulatore di trincea, in un videogame stealth, che però è in realtà grande cinema.

Una regia paziente, accurata, meticolosa, che sa essere anche vertiginosa, viscerale e adrenalinica nei numerosi momenti di tensione, cui si aggiungono le oniriche o movimentate ed energiche di musiche di Thomas Newman. Al realismo, all’empatia, all’immedesimazione di cui si diceva, si aggiunge poi anche qualcos’altro: un sognante disincanto, ma anche un indomabile senso di riparazione contro una guerra che lasciato indietro solo macerie, sabotaggi e fango,  quello che anima il caporale Shoefild, interpretato da un sorprendente George MacKay, che ha girato la maggior parte delle scene senza stuntman. Il suo coinvolgimento emotivo nel ruolo è tangibile ed esalta ancora di più il realismo e la contiguità empatica tra film e spettatore.

Assieme a Parasite e Joker (con cui condivide la capacità di suscitare immedesimazione) è senza dubbio tra i migliori film dell’anno e sarà protagonista durante la notte degli Oscar.

 

Francesco Bellia