Tre manifesti ad Ebbing Missouri: tre vessilli di rabbia, dolore e accettazione

Candidato a 7 Oscar il nuovo film di Martin McDonagh

Vincitore di 4 Golden Globe e candidato a 7 Oscar tra cui migliore film drammatico, migliore sceneggiatura, miglior attrice a Frances McDormand, migliore attore non protagonista a Sam Rockwell e Woody Arrelson, “Tre manifesti ad Ebbing Missouri” dell’irlandese Martin McDonagh è stato largamente apprezzato dalla critica e potrebbe essere protagonista degli Oscar 2018.

Senza dubbio siamo dinnanzi ad un film con un incipit dirompente, nel perfetto stile di McDonagh. Nel Missouri, ad Ebbing, Mildred Hayes, una donna indurita dal dolore per il brutale assassinio della figlia (violentata e bruciata viva), e oppressa dal senso di rabbia per l’indifferenza delle istituzioni, decide di sfidare quest’ultime, invece che insabbiare e dimenticare l’accaduto: paga un pubblicitario per affittare tre enormi cartelloni sull’autostrada, sui quali fa scrivere senza mezzi termini e a caratteri cubitali pesanti accuse contro il mancato intervento dello sceriffo, senza risparmiare alcuno dei particolari sulla aberrante vicenda che ha colpito la figlia.

Tale vessillo è visto subito da tutti come un attacco alla comunità, un’inaccettabile fonte di scandalo, con il quale si accusa un uomo, lo sceriffo (interpretato da un bravo Woody Arrelson), stimato da tutti e malato di cancro, rendendo questa ingiuria ancora più inaccettabile. La maggior parte della gente di Ebbing si schiera contro la donna, ma questa non demorde e fa di tutto per mantenere intatti i tre Manifesti, a scapito di se stessa e dell’opinione pubblica. Nella seconda parte del film la sua vicenda si intreccia stranamente con quella di un poliziotto disadattato, violento e razzista (Sam Rockwell), che soffre di attacchi d’ira, il quale però comincia per la prima volta a prendere il suo lavoro sul serio.

Come le due opere precedenti, “7 psicopatici” e “In Bruges la coscienza dell’assassino”, “Tre manifesti ad Ebbing Missouri” reca la chiara impronta del regista Mcdonagh: è una pellicola schietta, dall’ironia caustica, a volte volutamente aggressiva, con personaggi irascibili e burberi, ma anche istrionici ed eccentrici, dalla parolaccia facile, dei disadattati inquieti e sopra le righe, che sfidano continuamente le istituzioni e i canoni codificati della società perbenista con le loro incrollabili e testarde convinzioni. Spesso il loro modo di agire va ben oltre la normalità e assume connotati estremi, al punto dal rendere i protagonisti bivalenti e anche pericolosi per chi sta loro intorno. Così Mildred, interpretata da una straordinaria Frances McDormand (in odore di oscar): una madre segnata dal dolore, che cerca di uscire dalla depressione attraverso attacchi rabbiosi e duri contro l’indifferenza che sembra circondarla da ogni parte (quella della polizia, a quella del marito che l’ha lasciata per una donna più giovane). Una fermezza ferrea e disperata, che la rende una muraglia inespugnabile, proprio come i colossali manifesti sull’autostrada che ha voluto utilizzare per gridare a tutti il suo disappunto.

Allo stesso tempo i suoi comportamenti sono a tratti sovversivi e vendicativi, in un miscuglio di sensazioni, che è reso in tutte le sue sfaccettature dalla notevole performance attoriale dell’attrice; ma la lotta di Mildred è soprattutto contro se stessa e contro il suo senso di colpa, per non essere stata una buona madre. Nel corso del film l’isolamento e l’opposizione operate dalla comunità di Ebbing fomenteranno sempre di più questa sensazione (come ricorderà lo sceriffo nella sua lettera). E’ così che i tre manifesti per la protagonista assumono valori simbolici ambivalenti, come i sentimenti che la animano: da una parte essi sono un vessillo di rabbia e odio contro l’impotenza, l’immobilità, l’ingiustizia, nonché il tentativo di redimere il senso di colpa di Mildred per ciò che non è stata in grado di proteggere; dall’altra però rappresentano anche qualcosa che a suo modo assume una sua “sacralità”, come fossero una sorta di “monumento funebre” alla figlia, un’enorme e schietta lapide che va preservata e curata. Così Mildred si reca spesso nell’area intorno ai cartelli per mettere dei vasi con dei fiori, come se fosse in un cimitero. Di grande impatto la scena in cui dialoga con un cervo, illudendosi per qualche attimo che esso sia sua figlia, venuta a ringraziarla per i manifesti che la madre ha curato in sua memoria. I tre manifesti sono l’emblema della rielaborazione della morte e non è un caso che nella prima parte del film il regista ponga un parallelismo tra Mildred e lo sceriffo malato di cancro, un Woody Arrelson che potrebbe davvero vincere l’oscar. Entrambi sono dinnanzi all’accettazione della fine. I dialoghi tra i due sono intensi e non rappresentano come ci si aspetterebbe un mero fronteggiarsi  dell'”autorità che nega” con la donna che pretende giustizia per sua figlia. Nonostante lo sceriffo provi inizialmente a far valere il suo ruolo, alla fine, egli, proprio per la sua condizione di malattia, si ritrova a provare empatia nei confronti di Mildred, tanto da simpatizzare per lei, piuttosto che per la divisa che dovrebbe rappresentare. E’ così con questi parallelismi, misti ad una stravagante e originale ironia, dura, violenta, senza timori né tabù  che McDonagh costruisce la prima parte del film: notevole sia registicamente che per la sceneggiatura.

Nella seconda, invece, il ritmo cambia e si affacciano i temi del perdono e della violenza. Il regista sposta il confronto di Mildred con un altro personaggio, non lo sceriffo, ma il poliziotto razzista e disadattato interpretato con carattere da Sam Rockwell, che incarna l’ignoranza, la chiusura e il razzismo del Missouri. I due, “gonfiati” dall’insofferenza verso un mondo che non li ascolta e che li considera disadattati; dalla delusione e dalla loro rabbia, che si tramuta a tratti in odio ingiustificato verso ogni cosa, prima si scontrano indirettamente a suon di vendette e incendi (i cartelloni vengono sadicamente bruciati, come il corpo della figlia di Mildred e poi il poliziotto è a sua volta vittima delle fiamme); poi si ritrovano e perdonano in modo bizzarro, uniti da un neanche troppo convinto bisogno di violenza che assicuri un’ideale superiore di giustizia. In questa seconda parte il film, sebbene ben costruito, è più inverosimile e meno profondo che nella prima. Nonostante la bravura di Sam Rockwell, il suo personaggio cambia troppo repentinamente e le sue azioni risultano più simili a quelle di un personaggio-macchietta, piuttosto che riconducibili ad una psicologia stratificata come quella di Mildred. La stessa genesi del cambiamento interiore del poliziotto è immortalata da una scena ironica e paradossale (in cui dato che ascolta il walkmen non si accorge di essere dentro un edificio in fiamme). Da questo punto di vista quindi egli è un po’ un personaggio forzato, che smorza i momenti e i toni drammatico-ironici fino a quel momento adottati dal regista. Anche le sue ferite si sommano abbastanza repentinamente le une alle altre, in un ritmo veloce e sostenuto. L’effetto complessivo è più comico e grottesco, che non nella la prima parte del film.  La pellicola termina quando probabilmente ne sarebbe potuta cominciare un’altra altrettanto interessante: un road movie in cui indagare le ambigue analogie tra Mildred e il poliziotto. Questa scelta dà un po’ un senso di incompletezza all’opera, probabilmente voluto dal regista, che ci confonde fino alla fine con la sua alternanza di stili. Anche se in fondo, se si riflette, può essere giustificata dal fatto che lasciare Ebbing Missouri per Mildred significhi anche abbandonare i tre manifesti e il valore che essi hanno assunto per la donna, determinando così finalmente un distacco da essi e dal lutto: in un percorso di progressiva  accettazione e rielaborazione della perdita. Come dire che se lei abbandona i manifesti, che nel corso di tutta la storia aveva curato più di se stessa, il film non ha più motivo di continuare. Questa una possibile lettura, con cui non si nega l’evidenza per cui il finale della pellicola è senza dubbio meno potente e più rocambolesco del dirompente inizio.

In attesa di sapere se sarà vincitore di Oscar (probabili e meritati quello alla sceneggiatura e la miglior interpretazione di Frances McDormand), può essere interessante operare un confronto con altri film dello stesso regista. Anche “In Bruges”, geniale esordio del regista, che ne ha determinato il suo stile, ad esempio, abbiamo tematiche malinconiche, che si alternano a dissacrante, sarcastica e violenta ironia. Il risultato complessivo è più incentrato sulla commedia paradossale che sul dramma, ma lo stile è simile a quello di Tre manifesti ad Ebbing sotto diversi aspetti. Innanzitutto la centralità della violenza, della rabbia e del tema della morte. La trama racconta, infatti, di un killer, dall’indole aggressiva e violenta, (un brillante Colin Farrel) che per sbaglio ha ucciso un bambino durante un omicidio su commissione.

Una scena di In Bruges

Lo spietato boss della mala (Ralph Finnes) non può tollerare un simile errore, perchè lo reputa immorale: ha infatti uno strano codice di valori assolutamente inflessibile. Il trasgressore va punito, ma per farlo morire felice, l’uomo incarica un altro sicario (Brendan Gleeson) di portarlo nella bellissima città di Bruges per ucciderlo, Il problema è che al protagonista, dilaniato dal senso di colpa, Bruges appare come la peggiore delle città. Odia tutto: dalle strade ai musei, che sembrano ricordargli i suoi peccati e i suoi errori. Nonostante il giro turistico egli non è pronto per morire. Malinconico e distruttivo finisce per inimicarsi innumerevoli persone e assieme al collega dovrà affrontare il boss della malavita venuto di persona per risolvere la questione.

Anche qui come in Tre manifesti: testardaggine, paura della morte, senso di colpa, il tutto infarcito di conversazioni sboccate tra criminali, in stile un po tarantiniano, che McDonagh usa abilmente per veicolare un film dalle tinte oscure e grottesche. Le assurde azioni e idee dei protagonisti sono veicolate dall’assurda ambientazione, così che anche le azioni più improvvise e folli vengono ritenute a loro modo credibili: una farsa intrisa di morte si potrebbe dire, in un black humor , che in alcuni momenti risulta anche paradossalmente drammatico. Questo mix di stili, come dicevamo è presente anche in Tre manifesti a Ebbing, anche se, in quest’ultimo, proprio per la maggiore serietà dei temi affrontati, il finale non si lega così perfettamente ad alcuni comportamenti “folli” dei personaggi di McDonagh. Possiamo dire quindi che, a parere di chi scrive, la mescolanza di stile, che è la forza di in Bruges, non è forte allo stesso modo nel finale di Tre manifesti ad Ebbing, ma penalizza sotto certi aspetti questo film, perché rende all’improvviso un po’ irrealistico un dramma forte e serio, ben costruito fino a quel momento, ambientato in una realtà di razzismo, ignoranza e indifferenza quale quella del Missuori, tangibile e concreta, al contrario di quella volutamente paradossale e stravagante di Bruges. 

Francesco Bellia