Sicilian Ghost Story: un sequestro di mafia in chiave horror-fantasy

Il film, dei registi palermitani Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, ha aperto la “Settimana della critica” nella 70 edizione del “Festival di Cannes”. Si tratta di un’opera che, tramite la suggestione solo apparente di una ghost story (suggerita dal titolo), racconta la storia di un sequestro di mafia, avvalendosi di un registro anomalo, mistery-soprannaturale, invece che del solito linguaggio cinematografico di denuncia. Questa operazione può dirsi riuscita solo in parte.

La protagonista, Luna, un adolescente siciliana (Julia Jedlikowska), invaghitasi di un suo compagno di classe, Giuseppe (Gaetano Fernandez), con il quale condivide l’amore per la natura e il desiderio di evadere dalla realtà, farà di tutto per ritrovare il ragazzo, dopo la scomparsa improvvisa di quest’ultimo, rapito da alcuni uomini della mafia per operare un ricatto.

Il lato migliore del film è senz’altro la fotografia, soprattutto nei campi lunghi che immortalano paesaggi siciliani di notevole fascino: boschi, campagne, fino alla scena finale che ritrae il mare con la “Valle dei templi di Agrigento” sullo sfondo. Bellezze paesaggistico-artistiche che non hanno bisogno di presentazioni, perché le immagini parlano da sole; ma se il “comparto tecnico” del film appare fin da subito di buona fattura, non si può dire lo stesso di altri aspetti che incidono negativamente sulla sua solidità complessiva.

La  sceneggiatura, ad esempio, che delinea personaggi abbastanza bidimensionali, alle volte vere e proprie macchiette sicule o stereotipi (il mafioso sporco e cattivo, il ragazzo secchione con gli occhiali, la ragazza adolescente ribelle) semplifica molto una vicenda realmente accaduta che meritava un’analisi ben più complessa. Le figure degli adulti ad esempio sono piatte e scontate, soprattutto quelle dei genitori, centrali se l’obiettivo era quello di far emergere il conflitto adolescenziale o il contrasto tra la ricerca della verità da parte della ragazzina e la connivenza ottusa degli adulti rispetto alla mafia.Tutti questi elementi in realtà sono solo abbozzati, perché l’idea centrale del film era un’altra: quella di giocare sulla parola fantasma, per denunciare le aberrazioni della mafia in Sicilia, che spesso hanno provocato e provocano “vittime invisibili”.

Il concetto, senz’altro interessante, non regge per la durata di un film. La suggestione iniziale, creata con tocchi mistery e inquadrature horror, ben presto si spegne. Già a metà dell’opera lo spettatore ha capito il gioco linguistico e cinematografico. Per questo, probabilmente, il concept dell’opera sarebbe stato più adatto per un corto, che per un lungometraggio. La seconda parte della pellicola appare ridondante, a tratti confusa. Il racconto, quasi del tutto esaurito, fatica a proseguire. I personaggi ripetono se stessi, le scene oniriche non si amalgamano bene con la narrazione. Il finale, soprattutto, che sarebbe dovuto essere dirompente per lo spettatore, perché avrebbe dovuto incarnare lo spirito di denuncia del film, perde molto del suo significato, tanto da uscirne diluito e alquanto scontato, il che è paradossale se si pensa che il caso del piccolo Di Matteo è stato uno dei fatti di cronaca più eclatanti, legati alla mafia

L’ibrido fra fiaba horror e film denuncia, scelto dai due registi, quindi, non convince. La finta ghost story, sebbene scenicamente buona, è fragile nel suo impianto e nel montaggio. Non arriva al punto, a differenza di altri film tra cui “Io non ho paura” di Salvadores e “Il sud è niente” di Fabio Mollo (regista delIl Padre di Italia“), che sono ben più incisivi. In quest’ultima pellicola del 2013, sebbene non si parli di un sequestro di mafia, ma di una morte causata dalla stessa, è ben realizzata la metafora del fantasma. Anche qui, infatti, la problematica protagonista Grazia, che si comporta come un maschiaccio, un po’ per assumere su di se l’identità del fratello scomparso, è convinta che suo fratello Pietro sia ancora vivo e lo vede più volte per la strada come un’apparizione. Le emozioni sono molto più realistiche, perché la psicologia dei personaggi è molto accurata, così come il rapporto padre-figlia e  il desiderio di ribellione della ragazza dinnanzi all’omertà, alla sottomissione e alle parole non dette del genitore. Il tutto è costruito gradualmente, attraverso le azioni dei protagonisti, i loro dialoghi, i loro silenzi, più che le suggestioni sceniche. La bella fotografia è al servizio dei personaggi e non il contrario, come in Sicilian Ghost story.

Ritornando al film di Grassadonia e Piazza, tra gli attori, interessante è la giovane protagonista femminile (Julia Jedlikowska). Infelice, invece,  la scelta della madre svizzera (svizzera anche l’attrice) che parla un siciliano misto ad espressioni straniere. Questo rende il suo ruolo poco convincente, lì dove, invece, avrebbe potuto assumere importanza, soprattutto nel confronto con la figlia.

Certo: per un pubblico internazionale, che non conosce nel dettaglio le crudeltà della mafia, la pellicola può suscitare interesse ed ha certamente la sua importanza, ma il suo impatto non è forte come quello che avrebbe potuto avere, se ad esempio si fosse svincolata da un modo caricaturale di intendere la sicilianità e avesse cercato invece di andare più a fondo, dato che l’occasione cinematografica c’era, vista la rilevanza del soggetto.

Francesco Bellia