Rohingya di Birmania: l’innominabile “popolo fantasma”

Papa Francesco è in Myanmar. Il Santo Padre, infatti, è atterrato proprio ieri a Yangon, dove ad attenderlo c’era un folta di schiera di fedeli. Nulla di strano, ci verrebbe da dire, eppure questa visita ufficiale è qualcosa di straordinario e che lascia ben sperare in futuro migliore e realmente di pace.

Eppure, il viaggio del papa in Myanmar è iniziato con un doppio cambio di programma: avrebbe dovuto incontrare il generale Min Aung Hlaing, ma se ne è ritrovati davanti cinque. Il primo incontro è stato infatti con il capo dell’esercito e altri vertici militari che hanno governato per anni con pugno di ferro l’ex Birmania. L’attesa incontro con il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, consigliera di Stato e ministro degli Esteri, avverrà oggi. Sul tavolo della discussione anche l’accordo che Myanmar e Bangladesh hanno da poco trovato per il rimpatrio di oltre 600mila persone. Tuttavia, sul pontefice pende un particolare divieto quello di non pronunciare la parola “Rohingya”, la minoranza cacciata dal governo e che ha dovuta rifugiarsi in Bangladesh, oggetto del famigerato accordo tra le due nazioni. Ma cerchiamo di capire i motivi alla base di questo odio ancestrale.

In un paese come in Myanmar, che costa di 135 etnie nazionali ufficialmente riconosciuti, l’identità etnica è un concetto fisso che definisce l’identità stessa dello Stato e non può essere messa in discussione, modificata o reinventata. Fin dai primi anni ’50, una parte dei musulmani nel nord di Rakhine ha manifestato l’appartenenza ad un gruppo etnico culturalmente distinto e separato, che si identifica con il nome di Rohingya. Si stima che ci siano 800.000 Rohingya nello Stato di Rakhine, che costituiscono il 25% del popolazione, i quali risiedono principalmente nel nord della regione, dove formano l’80% della popolazione. Tale etnia, che è stata definita a più riprese come l’etnia più discriminata al mondo, non compare né sulle carte etniche né nei documenti ufficiali del governo birmano. Esclusi dalla lista delle minoranze nazionali, i Rohingya sono considerati degli stranieri e godono solo di pochi diritti, per non dire nessuno. Eppure, prima dell’indipendenza, nessuno aveva mai messo in dubbio l’appartenenza dei Rohingya alla nazione birmana. La ricostruzione storica, infatti, restituisce il passato glorioso di una comunità musulmana vigorosa e potente, tale da creare un proprio sultanato, inglobato nel 1784 nell’Impero Birmano, prima, e nell’Impero coloniale britannico, poi.

All’indomani dell’indipendenza, però, tutto cambia. I Rohingya, che auspicavano alla creazione di una regione autonoma musulmana, non vennero riconosciuti neanche come abitanti dello stato birmano, anzi, vennero etichettati come stranieri, simbolo della dominazione inglese. Da qui, lo scoppio di quella violenza settaria che dal 1948 caratterizza lo Stato di Rakhine: da un parte un gruppo di ribelli musulmani in lotta contro l’autorità centrale e la comunità buddhista, mentre dall’altra il governo con le sue politiche discriminatorie e propaganda anti-Rohingya. Il colpo di Stato da parte del Generale Ne win nel 1962, allontanò ancora di più la speranza di trovare una soluzione duratura alla questione Rohingya. Il nuovo regime inaugurò una politica molto più radicale, ufficializzando il riconoscimento dell’etnia Rakhine come unico gruppo indigeno dello Stato che, non a caso, porta il loro nome. Da questo momento in poi ha inizio una lunga e duratura politica di esclusione di musulmani con lo scopo di creare uno Stato completamente buddhista.

Le agenzie delle Nazioni Unite, l’UE e molte ONG da tempo hanno riconosciuto la negazione della cittadinanza ai Rohingya come causa principale della violenza di cui sono oggetto oggi i Rohingya, così come il costante esodo di tale comunità verso gli altri Stati del mondo, sono il frutto di una legge che nega la loro esistenza, non solo in termine di gruppo etnico, ma anche di individui. Dal 1993 il Governo birmano ha iniziato ad attuare una serie di politiche discriminatorie volte a controllare la minoranza musulmana nello stato di Rakhine, limitazioni che interessano ogni aspetto della vita quotidiana: restrizioni di movimento, restrizioni sul matrimonio e nelle relazioni private, controllo delle nascite, limiti coercitivi sul parto, limiti che comportano altre gravi violazioni dei diritti umani come il diritto alla vita, alla salute, alla casa, al lavoro, diritti sacri ed inviolabili per ogni comunità che si definisca civile.

Dopo anni di silenzio, avevamo sperato in una soluzione con l’elezione di Aung San Suu Kyi, simbolo della resistenza alla violenza e alle ingiustizie, che aveva sfidato la giunta militare con un coraggio ammirevole e sacrificato gli affetti (un marito e due figli lasciati in Inghilterra) in nome del popolo che suo padre aveva portato verso l’indipendenza, nel 1947, prima di essere assassinato. Invece, no, niente, sui Rohingya nessuna parola. Non se ne capacitano i suoi colleghi premi Nobel, il Dalai Lama e Desmond Tutu, che hanno sollecitato un suo intervento in difesa dei Rohingya, che probabilmente non arriverà mai. Non se lo spiegano i suoi ammiratori, che in lei avevano riposto le speranze in un paese migliore. L’icona sembra aver lasciato il posto alla leader politica, pragmatica e calcolatrice, che preferisce non esprimersi su questioni “sensibili” una volta raggiunto finalmente il potere.

Non sappiamo se l’incontro con Papa Francesco, figura dotata di straordinario carisma, riuscirà a far ammettere al Ministro degli Esteri e a tutto il governo del Myanmar, le gravi colpe e i gravi abusi perpetrati senza logica  da istituzioni cieche e prive di valori nei confronti di una minoranza, la cui unica colpa è quella di voler difendere, con le unghie e con i denti, la propria religione e la propria cultura. Come affermava Mahatma Gandhi: “Ci sono stati nella storia tiranni e macellai e per un po‘ di tempo possono sembrare invincibili, ma la conclusione è che cadono sempre“, e noi aspettiamo solo la loro inesorabile e inflessibile caduta.