Se si pensa ad una “rivoluzione culturale” il primo pensiero che si guadagna il primo posto tra tutti gli altri è sicuramente quello di un cambiamento radicale di tradizioni, mentalità, riti e usanze di una società. Rivoluzione culturale fa pensare a un qualcosa di positivo, di uno slancio in avanti, di una proiezione verso il progresso, verso la modernità.
Basti pensare all’Illuminismo, movimento politico, sociale, culturale e filosofico sviluppatosi nel XVIII secolo a partire dall’Inghilterra: il principio cardine era il dominio della ragione, della razionalità, del proprio intelletto per fuoriuscire dalla condizione di minorità primordiale. Se non è uno slancio in avanti questo; se non è rivoluzione culturale questa.
Di casi di rivoluzione culturale ne è piena la storia, anzi, sono la storia stessa. Proprio così: la Storia, la Signora Storia, non è un mero susseguirsi di eventi casuali, ma un vero e proprio slancio continuo, un perpetuo superamento di se stessa in ogni ambito, con ogni strumento. Rivoluzione culturale dopo rivoluzione culturale la nostra società è arrivata ad essere quella che è oggi; basti pensare alla rivoluzione francese, a quella americana, russa, cubana, a quella industriale, a quella scientifica, al darwinismo, al romanticismo, all’illuminismo e chi più ne ha più ne metta.
Le rivoluzioni culturali e sociali hanno creato la storia. Le rivoluzioni sono la storia.
Ma oggi, stiamo vivendo una rivoluzione culturale? Siamo sicuri, più che altro, che sia effettivamente uno slancio positivo? Quella dei nostri giorni è una rivoluzione o un’involuzione culturale? Una tecnologia che ci allontana dalla percezione lucida della realtà; una mercificazione degli ambiti culturali; il poco (pochissimo, a dir la verità) rispetto che regna tra gli uomini; la paura; le immigrazioni e le emigrazioni forzate; il Dio denaro; la povertà; la guerra. Se ogni periodo storico è scandito da una rivoluzione culturale, noi in che periodo stiamo vivendo?
Attraverso le parole di Zygmunt Bauman (Poznań, 19 novembre 1925 – Leeds, 9 gennaio 2017) – il più acuto studioso della società postmoderna che ha raccontato in pagine memorabili l’angoscia dell’uomo contemporaneo – verrà esplicata l’importanza del dialogo, e soprattutto la sfida che quest’ultimo deve affrontare quotidianamente per non essere lasciato all’oblio.
Parlando della guerra lo studioso afferma: «Il nostro mondo contemporaneo non vive una guerra organica ma frammentata. Guerre d’interessi, per denaro, per le risorse, per governare sulle nazioni. Non la chiamo guerra di religione, sono altri che vogliono sia una guerra di religione. […] Lei sa bene che in un mondo permeato dalla paura, questa penetra la società. La paura ha le sue radici nelle ansietà delle persone e anche se abbiamo delle situazioni di grande benessere, viviamo in una grande paura. La paura di perdere posizioni. Le persone hanno paura di avere paura, anche senza darsi una spiegazione del motivo. E questa paura così mobile, inespressa, che non spiega la sua sorgente, è un ottimo capitale per tutti coloro che la vogliono utilizzare per motivi politici o commerciali. Parlare così di guerre e di guerre di religioni è solo una delle offerte del mercato». Il sociologo sostiene, inoltre, che le guerre di religione e le immigrazioni siano in realtà nomi differenti dati oggi per sfruttare questa paura vaga e incerta, male espressa e mal compresa.
Il punto, però, è che oggi viviamo in una condizione cosmopolita di interdipendenza e scambio a livello planetario ma non abbiamo neppure iniziato a svilupparne la consapevolezza. E gestiamo questo momento con gli strumenti dei nostri antenati; è una trappola, una sfida da affrontare. Noi non possiamo tornare indietro e sottrarci dal vivere insieme.
Ed è proprio in questo frangente che entra in gioco la parola, il dialogo. Il mezzo di comunicazione più potente di tutti i tempi, ben oltre la tecnologia e le piattaforme digitali. L’uomo di oggi ha dimenticato cosa significhi comunicare, ma quel comunicare genuino che si prova solo se si guarda negli occhi il proprio interlocutore, se si sondano le espressioni più minime, se si sente il suono delle parole.
Se l’uomo di oggi – se il mondo – comunicasse di più, se ci fosse più dialogo. Ovviamente è da stolti credere che la nostra realtà muterebbe radicalmente, ma sicuramente ci sarebbe più ascolto, che di conseguenza comporta più attenzione e dunque più azione.
Ad oggi non sappiamo che tipologia di rivoluzione culturale stiamo affrontando. E se fosse una rivoluzione culturale del dialogo?