Maggio 2007: Beeple (al secolo Mike Winkelmann) mette mano ad un progetto innovativo. Decide di pubblicare ogni giorno in rete un’opera d’arte digitale. Oggi, a distanza di 5000 giorni, l’artista ha raccolto le prime 5000 immagini in un unico file (sotto il titolo di “The first 5000 days”), battuto all’asta da Christie’s lo scorso 11 marzo. Questo fatto già basterebbe a far notizia (mai prima la casa d’aste aveva trattato un’opera completamente digitale); ma vi dobbiamo aggiungere un dato ancora più degno d’attenzione: “The first 5000 days” è stata acquista per 70 milioni di dollari (69.246.250, a voler essere precisi).
Già qualche domanda serpeggia nella mente di chi legge. Come sia possibile vendere un’opera digitale, che uso se ne possa fare – come esporla in salotto? -, quali novità si stiano preparando per il mondo dell’arte e della sua fruizione.
Procediamo con calma. L’opera è stata venduta da Christie’s come NFT (non fungible token), o – a volersi esprimere nell’idioma gentile – un bene infungibile. Un NFT è insomma un qualunque oggetto che non può essere scambiato con nessun altro pari a lui. La stampa da pochi euro della Gioconda che teniamo appesa in camera può essere tranquillamente sostituita da un’altra stampa identica. Entrambi questi beni hanno infatti lo stesso valore (economico e sociale). Ma l’originale di Leonardo non può invece essere scambiato con niente che gli sia identico, essendo un oggetto unico, irripetibile. Dunque, è un NFT. Così, l’opera digitale battuta da Christie’s non è una delle tante copie di “The first 5000 days” che si possono trovare nella rete, ma è la sua versione originale, e quindi (benché copiabile) irripetibile.
A differenza dell’acquirente di un’immagine-su-tela, quello dell’opera di Beeple non può esporla in salotto, e su nessun’altra delle pareti di casa; può solo fruirla telematicamente.
Benché tutto questo ci stranii, dobbiamo tenere a mente che l’arte cambia, si evolve, e riesce sempre ad impadronirsi dei mezzi espressivi che il mondo le offre. I quadri tradizionali, per esempio, sono pensati e creati (semplificando) per essere goduti attraverso la vista; parallelamente, le nuove tecnologie ci mettono a disposizione la possibilità di dare vita ad opere ipertestuali; un’immagine che si trasforma in un video, per poi lasciare spazio ad un testo, o ad una musica, e così via. Nuove opere che permettano insomma una fruizione plurisensoriale; che mettano in gioco svariate delle nostre capacità psichiche.
Tutto ciò, com’è sempre stato, non scalzerà nessuna delle arti figurative precedenti. I diversi modi di fare arte si sono sempre affiancati e sempre si affiancheranno, proponendo ognuno una diversa fruizione. Ed è ciò che noi chiamiamo varietà, una delle basi del piacere estetico umano.
Dunque: niente paure apocalittiche. Ma la domanda sporge spontanea: perché spendere così tanto per possedere un’opera che non può neanche essere appesa ad un chiodo e mostrata con superba boria ai propri ospiti? La risposta è duplice; innanzitutto, perché il piacere di possedere non conosce confini. Sicuramente alletterebbe possedere la “Gioconda”, che pur continuerebbe ad essere vista e rivista da chiunque paghi il biglietto d’ingresso del Louvre. Allo stesso modo, alletta l’idea di possedere l’originale di un’opera cui tutte e tutti possono accedere tramite la rete.
La seconda risposta è che questo acquisto sia più una scommessa su Dio (a voler usare Pascal) che un vero e proprio progetto. Se sempre più artisti produrranno opere digitali (e accadrà), se il pubblico di queste opere diventerà sempre più vasto (e anche questo accadrà), ecco che potrebbero sorgere veri e propri musei online, collezioni telematiche cui accedere tramite l’acquisto di un ticket per osservare – è sempre qui il punto – la versione originale delle opere già conosciute sotto forma di copia. Proprio come oggi paghiamo per entrare nel Louvre e goderci l’originale della “Gioconda”, benché potremmo tranquillamente acquistarla sotto forma di stampa in qualsiasi grande magazzino.
Ma se così davvero fosse, vorrebbe dire che ci troveremmo di fronte al fallimento di quella rivoluzione che le nuove tecnologie ci offrono; cioè l’arte per tutte e per tutti, a prezzi minimi o nulli, accessibile attraverso il proprio dispositivo elettronico.
Le pubbliche istituzioni non devono aspettare che si crei un piccolo gruzzolo di grandi possessori di opere d’arte digitali. Devono agire, prima che tutte queste vengano musealizzate online senza che la comunità possa fare alcunché. Come ci rallegriamo che quanti più musei siano pubblici – solo così si può veramente garantire quel diritto costituzionale che è l’accesso di tutte e di tutti alla cultura -, così deve essere pubblico il possesso di quante più opere digitali possibili, di quante più possibili future collezioni telematiche. Altrimenti, la rivoluzione della tecnologia altro non sarà stata che la trasposizione di vecchi problemi su mezzi nuovi, e continueranno le iniquità, e noi saremo sempre e comunque dei poveri Christie’s.