Orange is The New Black: sperimentare in un’epoca timida

Di Luca Tognocchi per Social Up!

E’ ormai più che evidente che viviamo in un’epoca se non codarda, almeno timida. Manca il coraggio di sperimentare, di fare un salto nel buio, di prendere rischi. Rischi. Perché è questo il problema. Perché rinunciare alle certezze, ad andare sul sicuro, quando nemmeno il pubblico sembra voler cose nuove? Sono tutti contenti dell’ennesimo Fast&Furious, vedono tranquillamente il nuovo cinepanettone o l’ultimo film patriottico sulla grandiosa storia degli Stati Uniti. Viviamo in un periodo di grande mancanza di voglia di fare, di colpire, di provare qualcosa di nuovo. Nell’ambito degli audiovisivi la situazione è tragica per quanto riguarda il cinema ma un po’ meno per la TV. Come abbiamo scritto in un precedente articolo su Netflix, nel campo televisivo stiamo assistendo a rivoluzioni e nascite di nuovi linguaggi e stili narrativi e riteniamo valga la pena approfondire, partendo da una delle serie di Netflix che più si lancia in queste sperimentazioni, all’alba della sua quarta stagione: “Orange is the New Black”.

La serie inizia seguendo la vicenda di Piper Chapman, giovane ragazza di New York, che deve rimandare le prossime nozze con il suo compagno perché dovrà scontare un anno in prigione. Vari anni prima era stata compagna di una importante spacciatrice che l’aveva resa complice di alcuni suoi illeciti per poi denunciarla. E come se non bastasse le due si troveranno nella stessa prigione.

Sono i suoi occhi di brava ragazza, né ricca né povera, normalissimo esponente della stessa classe media un po’ viziata e scansafatiche della quale facciamo parte noi, a mostrarci la storia. O almeno l’inizio. Inizialmente Piper (la protagonista) è il nostro filtro, l’occhio tramite cui ci viene raccontata la prigione, ma proprio quando cominciamo ad abituarci al suo punto di vista, ecco che il filtro viene rimosso. È da qui che parte lo sperimentalismo narrativo: gradualmente la serie perde il suo centro, verso una narrazione assolutamente corale. In alcuni episodi della seconda stagione Piper non compare nemmeno e nella terza perde completamente la sua centralità.

Ogni episodio scava nella vita di un detenuto, con flashback ben dosati che ci raccontano chi fossero fuori e come siano finiti dentro, e centrando l’episodio sulle vicende di quel personaggio, le più quotidiane, per noi insignificanti, che però sono per loro l’unica ancora di salvezza per sfuggire alla follia. Le uniche ore d’aria date allo spettatore sono quelle nelle quali si seguono le vicende del fidanzato di Piper, lui libero ma comunque imprigionato dalla sua situazione, in una prigione senza sbarre ma oscurata, dalla quale non può vedere né capire ciò che succede alla compagna. Se inizialmente simpatizziamo per lui, gli siamo vicini, finiremo ben presto per sentirlo distante nella sua incomprensione e lontananza.

Il percorso del decentramento narrativo è stato intrapreso anche da altre serie, una su tutte “Game of Thrones”, e sfrutta a pieno le potenzialità uniche della TV: con un grande ammontare di tempo a disposizione infatti si può creare coerentemente e approfonditamente un numero notevole di personaggi, delineare le loro parabole di crescita e sviluppo, alternarli continuamente al centro della scena senza che la narrazione caschi a fondo. Allontanarsi dalla logica del protagonista rende la serie (e lo scrittore, sempre troppo poco considerato) libera e indipendente.

Un’altra magia di questa serie è nel luogo della narrazione: il carcere. Avviene tutto al suo interno. Sarebbe sia un luogo chiuso, sterile e poco dinamico, proprio grazie alla narrazione corale diventa invece un luogo florido, dove si realizzano le psicologie dei personaggi, i loro desideri e soprattutto le delusioni. È il fatto che questo contenitore sia chiuso che ci permette di capire quanto invece sia aperto verso i personaggi e lo spettatore stesso. Non sentiremo mai l’aria che ci manca o le pareti che ci si chiudono addosso, perché ci sarà sempre qualcosa de esplorare e capire fra quelle mura.

Anche nel genere “Orange is The New Black” si distingue. Tenta con estremo successo la via del cosiddetto “dramedy”, un mix perfetto di drama e comedy (di questo genere abbiamo parlato in un precedente articolo).

In attesa dell’uscita della quarta stagione, con questo articolo vogliamo  consigliarne caldamente la visione, almeno per la sua carica di novità e per il desiderio di sperimentare, ormai uno straniero nel panorama televisivo.