Niente “mi piace” e zero commenti? Rischi la depressione

Dall’Australia arriva la notizia di uno studio sulle cause della scarsa popolarità sui social network. Test psicologici hanno rivelato che riscuotere scarso successo con tweet e post può causare ai più predisposti un calo dell’autostima e persino forme depressive. Ma di chi è la colpa? Dei social? Delle singole persone? O della società in generale?

Selfie, foto di cibo esotico, stati d’animo, citazioni di personaggi famosi, nomination al limite del credibile. Ormai non esiste più un freno a ciò che pubblichiamo (sì anch’io ammetto di essere caduto nella “rete”) sui social network . Facebook, Twitter, Instagram e chi più ne ha più ne metta. Tutto per comunicare di più e meglio. Ma alla fine l’obiettivo, anche di coloro che lo negano, è l’attenzione degli altri, l’autopromozione delle nostre idee o dei nostri momenti, intimi o meno che siano.

Capita però ogni tanto che un post non attiri l’attenzione, e soprattutto i “mi piace”, di nessuno. No likes, no comments. C’è chi ci passa sopra e chi invece proprio non si spiega questa mancanza di interesse nei suoi confronti. Un dramma? Forse no, ma adesso anche la psicologia si interroga su che effetto faccia non avere nessun riscontro, alcun feedback da altri utenti. Il rischio è un forte calo dell’autostima, stando almeno a quel che hanno recentemente dimostrato i ricercatori dell’Università di Queensland in Australia.

La ricerca è stata molto semplice ed è riassumibile in poche righe: oggetto di studio, due gruppi di internauti abituali (per non dire ossessivi) e con una particolare predilezione per Facebook. Al primo è stato detto di continuare con le loro consuete attività telematiche, al secondo invece è stato impedito di commentare e condividere i post degli amici.

Risultato? Le persone costrette all’immobilismo multimediale per due giorni (solo 48 ore, non due anni) hanno dichiarato che questo ha pesato e in maniera incisiva sul loro benessere personale. Ma non ci si è limitati a questo primo test.  Infatti, lo stesso gruppo è stato poi suddiviso in due sottoinsiemi, uno con a disposizione un account anonimo per “postare”, l’altro atto semplicemente a ignorare i post del primo. In poche parole, tutte le “cavie” oggetto del secondo esperimento si sono sentite immobili, inermi, impotenti, anzi INVISIBILI. Un’invisibilità che li ha ridimensionati come persone, a loro dire.

Il rischio, secondo un docente di psicologia italiano, Paolo Giovannelli, è che dal calo di autostima di cui abbiamo parlato si arrivi addirittura alla depressione. Tutto sta alla singola persona e a quanta importanza l’individuo dà alle interazione “social” del web. La soluzione: non rinunciare alle potenzialità della rete, quale inesauribile fonte di informazioni e mezzo per interagire con un numero potenzialmente illimitato di altri utenti, ma non dimenticare i nostri bisogni affettivi e umani.

Se poi oggi i bisogni delle persone sono avere cinquanta “mi piace” e venti commenti per ogni post, allora forse il problema non è da cercare nei social network, ma nella testa di questi “squilibrati emotivi”.

È anche vero che se raccoglie più like e retweet una frase di Paris Hilton o un aggiornamento dalla casa del Grande Fratello piuttosto che una news di politica o di cronaca, i bacilli di queste nuove patologie indotte dal mondo virtuale non sono solo da debellare sui social, ma nella società. Per intenderci, quella reale, se ancora  percepite una differenza.

redazione