La cappella Sansevero o Pietatella di Napoli, oltre a custodire opere d’arte di una bellezza struggente, possiede un’aurea di mistero e di magia, che hanno accresciuto la sua fama tanto da richiamare migliaia di curiosi, che vorrebbero scoprirne i segreti.
Le origini di un luogo leggendario
Sin dalle origini, la cappella è avvolta da un alone leggendario e tutto ruota intorno alle vicende dei di Sangro. In Napoli Sacra, Cesare Caracciolo narra di un uomo arrestato ingiustamente, che passando dinanzi al giardino dei di Sangro, fece voto alla Vergine. Subito vide crollare un muro di cinta e gli apparve l’immagine della Madonna alla quale promise una lampada d’argento perpetua e un’iscrizione, qualora fosse stata riconosciuta la sua innocenza. Scarcerato, l’uomo tenne fede al voto. L’immagine divenne luogo di culto e pellegrinaggio, tanto che Giovan Francesco di Sangro, ottenuta una miracolosa guarigione, fece innalzare un piccola cappella, chiamata Pietatella. Il figlio, Alessandro di Sangro, patriarca di Alessandria, avviò dei lavori per ampliare e renderlo un piccolo tempio votivo. Lo stesso doveva fungere anche da luogo di sepoltura per i di Sangro.
E’ la figura di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, che ha reso la cappella degna della sua fama. Raimondo fu un originale esponente del primo illuminismo europeo, un letterato, editore e soprattutto primo Gran Maestro della Massoneria Napoletana, inventore e mecenate. Nei sotterranei del suo palazzo, si dedicò a numerose sperimentazioni, dalla chimica idrostatica alla meccanica, raggiungendo risultati considerati magici ai sui tempi. Gli improvvisi bagliori che ne scaturivano e le invenzioni, hanno stimolato la fantasia dei napoletani. Si narra che fece uccidere due servi, per imbalsamarne i corpi e realizzarne le macchine anatomiche; che uccise sette cardinali per utilizzarne pelle ed ossa e realizzare delle sedie; che accecò lo scultore Sanmartino, affinché non riproducesse per altri un’opera simile al Cristo velato e pare che riducesse in polvere marmi e metalli. Il suo testamento intellettuale è conservato nel ricchissimo simbolismo della Cappella Sansevero.
Un tesoro di sculture
L’elemento più notevole della Cappella Sansevero è senza dubbio il suo corredo di statue. Il progetto iconografico, studiato e voluto dallo stesso Raimondo di Sangro, modificava il preesistente ordine della cappella.
Arco portante di tale progetto sono le Virtù, un complesso di dieci statue, nove dedicate alle consorti dei di Sangro, una invece, ad Antonio, padre di Raimondo di Sangro.
Le Virtù rappresentano un cammino spirituale, paragonabile a quello dell’iniziato massone, che deve condurre alla conoscenza. Parte integrante di questo percorso è il pavimento labirintico, che rappresenta le difficoltà di questo cammino, visibile solo in parte, nei pressi della lapide di Raimondo.
Esse sono state rappresentate seguendo l’iconografia dettata da Cesare Ripa nel suo Iconologia, opera molto apprezzata da Raimondo. Inoltre le statue non rispecchiano totalmente il canone classico, ma introducono elementi nuovi con un significato preciso.
L’opera che ancora incanta
L’opera più famosa della cappella Sansevero è il Cristo velato. Nelle intenzioni del Principe doveva essere collocato nella cavea sotterranea, insieme ai futuri sepolcri dei Sansevero ed illuminato da lampade perpetue di ideazione del principe Raimondo. È probabile però, che l’opera non sia mai stata portata all’interno della cavea. L’opera fu commissionata ad Antonio Corradini, che morendo, fece assegnare il lavoro a Giuseppe Sanmartino. Si tratta di un Cristo, sdraiato su un materasso, con il capo sorretto da due cuscini e inclinato lateralmente, il cui corpo è ricoperto da un velo che aderisce perfettamente alle forme del viso ed al corpo, tanto che sono visibili le ferite del martirio.
Al lato si trovano gli strumenti del supplizio, una realistica corona di spine, una tenaglia e dei chiodi, uno sembra pizzicare il velo del sudario. La fama di alchimista di Raimondo di Sangro, ha fatto accrescere l’alone di mistero su quest’opera. La leggenda narra che la trasparenza del velo sia dovuta al fatto che si tratterebbe di una vera stoffa, misteriosamente trasformata in marmo mediante un processo alchemico d’invenzione di Raimondo. In realtà il velo che è l’elemento più notevole di questa scultura, rivela tutta l’abilità dello scultore, che riesce a superare il maestro Corradini, che già aveva usato la stessa tecnica per Pudicizia. Il velo copre il corpo, senza celarlo, aderisce al corpo, mostrandone addirittura le ferite del martirio.
La delicatezza dei veli
La Pudicizia è dedicata a Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, madre di Raimondo di Sangro. La statua nasce dallo scalpello di Antonio Corradini.
La scultura raffigura una donna completamente coperta da un velo semitrasparente, cinta in vita da una ghirlanda di rose, che ne lascia intravedere le forme ed in particolare i tratti del viso. Essa è considerata il capolavoro del Corradini. La composizione è carica di significati: la lapide spezzata sulla quale la figura appoggia il braccio sinistro, lo sguardo come perso nel vuoto e l’albero della vita che nasce dal marmo ai piedi della statua simboleggiano la morte prematura della principessa Cecilia.
Il tema della vita e della morte è ripreso dal bassorilievo del pilastro su cui poggia la statua. Questo raffigura l’episodio biblico conosciuto come Noli me tangere, nel quale Gesù risorto dice alla Maddalena di non cercare di trattenerlo. Con tutta probabilità la statua è anche un’allegoria alla sapienza, con un riferimento alla velata Iside, dea egizia della fertilità e della scienza iniziatica; questa associazione trova riscontro dal fatto che secondo una tradizione dell’antichità nella medesima posizione della Pudicizia si trovava proprio una statua dedicata alla dea Iside. Va inoltre ricordato che il Corradini, oltre ad aver collaborato con Raimondo di Sangro nell’ideazione del significato iconografico della cappella, era a sua volta affiliato alla massoneria e doveva quindi essere bene a conoscenza della simbologia delle opere a cui lavorò.
Riferimenti massonici in Disinganno
L’opera di Francesco Queirolo, Disinganno è dedicata ad Antonio di Sangro, padre del principe Raimondo, che in seguito alla morte della giovane moglie, condusse una vita disordinata e dedita ai vizi. Ormai anziano, Antonio tornò a Napoli e pentito dei peccati, si dedicò ad una vita sacerdotale.
Lo storico Origlia, in Istoria dello studio di Napoli, afferma che Disinganno è completamente d’invenzione del principe. Nella composizione marmorea l’uomo è aiutato a liberarsi dalla rete del peccato da un putto, simbolo dell’intelletto umano, che con la mano destra indica il globo terrestre, simbolo della mondanità, adagiato ai suoi piedi.
L’elemento della fede attraverso cui è possibile liberarsi dagli errori commessi è rappresentato dalla bibbia aperta appoggiata al globo e dal bassorilievo sul basamento del pilastro, che raffigura l’episodio biblico di Gesù che dona la vista al cieco. In Disinganno è possibile rilevare un riferimento massonico: durante le iniziazioni della loggia, gli aspiranti erano bendati e in seguito, aperti gli occhi, comprendevano la verità. L’elemento che più colpisce è la rete, completamente in marmo, che dimostra tutta l’abilità del Queirolo.
Dediche a donne nobili
La soavità del giogo coniugale di Paolo Persico, nasce come dedica da parte di Raimondo di Sangro a Gaetana Mirelli, moglie di suo figlio Vincenzo, quando ella era ancora giovane, per tale motivo il suo profilo sul medaglione è appena abbozzato, pratica riservata alle persone ancora in vita. L’opera raffigura una donna in stato di gravidanza e vestita alla maniera degli antichi romani con alle spalle il lato di una piramide. La mano destra alzata porta due cuori in fiamme, simbolo dell’amore profondo e reciproco che dovrebbe esistere tra due coniugi; la mano sinistra regge, invece, un giogo coperto di piume, a simboleggiare una dolce obbedienza. Ai piedi della donna un angioletto sorregge un pellicano, animale che nella iconografie medievale simboleggiava il sacrificio di Cristo sulla croce e che per questo è associato alla carità.
L’altare barocco
Nella quarta cappelletta sul lato sinistro, tra le statue della Pudicizia e della Soavità del giogo coniugale, si trova l’altare di Santa Rosalia, opera eseguita dal Queirolo per ricordare la santa di famiglia. Rosalia ricordata per essere la patrona di Palermo, città che secondo la tradizione, trovo scampo grazie a lei dalla peste scoppiata nel 1624. Lo stile semplice e raffinato del Queirolo, privo delle esasperazioni tipiche dell’architettura barocca, trovò apprezzamento da parte del Canova. La composizione vede Santa Rosalia in preghiera, inginocchiata su un cuscino e con la testa cinta dalla corona di rose tipica della sua iconografia.
Unico esempio di altorilievo sugli altari maggiori delle chiese di Napoli, la Deposozione ha fama di capolavoro di Francesco Celebrano. Probabilmente prese ispirazione da un modellino di Corradini. L’opera rappresenta l’episodio della deposizione di Cristo dalla croce. Alcune figure, tra le quali emergono Maria e la Maddalena assistono affrante mentre il corpo di Gesù viene adagiato a terra; sotto di loro due putti sorreggono il sudario, sul quale risalta un’immagine metallica del volto di Cristo.
Gli affreschi del soffitto
Al di sotto del piano dell’altare altri due putti scoperchiano una bara, ormai vuota. Il talento del Celebrano emerge dalla drammaticità dell’intera scena, che riunisce insieme uno stile tardo-barocco con elementi caratteristici dell’arte seicentesca napoletana. Sembra voler fuoriuscire dagli spazi in cui è stata confinata. La composizione dell’altare è completata lateralmente da due angeli in stile barocco realizzati da Paolo Persico, autore anche della cornice di angeli in stucco che circonda il dipinto della Pietà.
Una delle prime cose che si nota appena entrati nell’edificio è l’affresco sul soffitto. Noto come Gloria del Paradiso, opera di Francesco Maria Russo. Ciò che colpisce, a distanza di due secoli e mezzo dalla realizzazione, è la brillantezza dei colori. Cromie create dal genio alchemico di Raimondo di Sangro per la sua pittura oloidrica. L’affresco termina con sei medaglioni monocromo in verde con i sei santi protettori del casato: San Berardo di Teramo, San Berardo cardinale dei Marsi, Santa Filippa Mareri, San Oderisio, San Randisio e Santa Rosalia. Al di sotto di questi, in corrispondenza degli archi delle sei cappelle più vicine all’altare, sono presenti sei medaglioni marmorei, opera di Francesco Queirolo, con le effigi di sei cardinali originari della famiglia di Sangro.
Il mistero delle macchine anatomiche
Le macchine anatomiche, custodite nella cavea della Cappella Sansevero, sono tra le attrattive maggiori. Si tratta di due individui, un uomo e una donna, scarnificati, che riproducono in maniera minuziosa e fedele il sistema circolatorio. Il grado di precisione raggiunto nel rappresentare le arterie, le vene e i capillari, ha spinto a credere, fino all’età contemporanea che si trattasse di tessuti viventi, conservatosi grazie a un procedimento alchemico, inventato da Raimondo di Sangro. Lo stesso Benedetto Croce, tramanda che il principe avrebbe iniettato nel sistema circolatorio di due servi una sostanza che avrebbe metallizzato i vasi sanguigni.
Secondo la tradizione più nota, essi presero forma dal medico palermitano Giuseppe Salerno, sotto la direzione di Raimondo di Sangro, seguendo un procedimento non completamente chiarito. Secondo un recente saggio del docente napoletano Sergio Attanasio, invece, il principe di Sangro non sarebbe direttamente intervenuto nella realizzazione dei due corpi, ma li avrebbe acquistati da Giuseppe Salerno quando erano già completati.