Manta Ray – Miglior film Venezia 75 Orizzonti

Amore e morte nel surrealismo immanente di Aroonpheng

Vincitore del Premio Miglior FilmVenezia 75 – Orizzonti, “Manta ray“, del thailandese Phuttiphong Aroonpheng è un film molto intenso, suggestivo e personale, che trabocca di una poesia esotica, che scorre con pazienza, per essere intervallata all’improvviso da picchi visionari e profondi di immagini, che sembrano provenire direttamente dai sogni o dall’anima degli elementi naturali da cui scaturiscono, e di suoni potenti che invadono lo spettatore portandolo al di là dello spazio realmente esistente.

Uno stile essenziale e criptico quello del regista thailandese, che unisce il quotidiano all’onirico, fondendo con virtuoso equilibrio registico questi due elementi. La sensazione finale è quella di un film che scorre come un piccolo fiume che si fa strada a poco a poco nel mare tempestoso delle emozioni e del sovrannatturale.

La trama racconta di un pescatore biondo che vive in un villaggio thailandese vicino al mare. L’uomo ripete sempre le stesse abitudini: va a pesca e si addentra spesso in un bosco in cui raccoglie delle strane e misteriose pietre luminescenti. Un giorno lungo il fiume, presso una foresta di mangrovie, trova un uomo in fin di vita. Lo porta a casa, gli dà il suo letto, lo cura e lo nutre fino a farlo ristabilire. Infine gli da pure un nome (Thongchai).

Il misterioso uomo è muto e non si sa nulla del suo passato. Egli diventa presto un’ombra silenziosa che segue il protagonista biondo in tutti i suoi movimenti e le sue azioni. Come un contenitore accumula informazioni e caratteristiche dell’altro uomo, venendone plasmato, fino a diventarne un doppio perfetto, anzi probabilmente anche migliore dell’originale, perché al contrario del pescatore biondo egli è puro e non macchiato dall’ombra della morte, nonostante ne sia scampato.

 

Il pescatore biondo infatti frequenta spesso dei boschi, in cui si dice siano seppellitti molti cadaveri. E’ lì che raccoglie le sue pietre luminescenti, le quali sembrano avere un collegamento proprio con le anime dei defunti. Le getta poi nel mare, per attirare le mante giganti (da qui il titolo), esseri misteriosi e rari, che forse sono attratti proprio dalle anime luminose di chi non è più in questo mondo. Egli inoltre è anche un’assassino, un uomo che sa cosa significhi privare gli altri della vita, ma anche ridargliela, come ha fatto con Thongchai. Un giorno però il pescatore biondo (di cui paradossalmente non si sa il nome), scompare nel nulla. Il suo doppio lo sostituisce e al ritorno della donna del pescatore, che era fuggita con un altro uomo, ne diventa il nuovo compagno. Ma il pescatore biondo è davvero scomparso?

Attraverso una narrazione magica, fluida e poetica, immortalata da un’elegante fotografia e una macchina da presa che spesso ama nascondersi dietro le barche, i veli, gli alberi e le mangrovie, Aroonpheng collega la realtà presente con altri mondi: il fisico e il metafisico non sono separati ma sono la stessa cosa, così il villaggio dei pescatori è proprio accanto al “bosco degli spiriti”, che di notte appare come un luogo misterioso, attraente ma anche conturbante, in cui si levano suoni ancestrali che sembrano provenire da un’altra dimensione. Allo stesso modo il passato rivive nel presente: la storia d’amore tra Thonghchai e la donna del pescatore biondo è quasi un riverbero di qualcosa che è già successo.

Di grande intensità il finale della pellicola, in cui il lungo e incessante canto-respiro di Tongchai, un vero e proprio mantra, è una preparazione per immergersi nelle acque di un nuovo mondo, una sorta di rito prima di trasformarsi in qualcos’altro. Si intuisce così che Tongchai il muto, non è un uomo vero di carne e ossa, ma probabilmente uno spirito silenzioso, che ha provato ad emulare gli uomini, in cerca di un suo posto nel mondo. Reincarnazione e animismo, sebbene lontane dalla nostra concezione occidentale sono comunicate con grande forza ed efficacia dalla regia essenziale ma profonda del regista thailandese. Egli adotta un linguaggio simbolico che, sebbene possa risultare poco familiare ad un certo pubblico, arriva comunque a destinazione dello spettatore tramite il cinema: prova che Manta ray è un ottimo film, meritevole senz’altro del premio ottenuto. Come in “Lo zio Boonme che si ricorda delle vite precedenti” (Palma d’oro a Cannes 2010) del regista thailandese Apichatpong Weerasethakul , la realtà e il mondo degli spiriti sono sullo stesso piano così come il passato si mescola col presente: sta agli esseri umani distinguere e comprendere il significato di tali dimensioni.


Ritornando a Manta ray, se è intenso e sconvoglente il modo in cui Aroonpheng racconta il mistero della morte: un bosco popolato da fantasmi e luci colorate, con una sorta di oscuro guardiano che imbraccia un fucile; è invece suadente e poetico il modo in cui egli descrive l’amore. Il tocco delicato di un’abbraccio, corpi che si sfiorano in un dolce ma appassionato canto. Il mistero dell’oblio eterno e quello dell’amore descritti con grande eleganza, nell’essenzialita immanente delle cose terrene. 

Tutti questi elementi, assieme alle improvvise e vibranti musiche,  fanno di Manta Ray una pellicola suggestiva e spiazzante, bella da vedere e da seguire, su cui ritornare volentieri per riflettervi sopra. Una piacevole sorpresa che attua pienamente la finalità della sezione  Orizzonti di cinema di Venezia, cioè quella di mostrarci nuovi modi di fare cinema, anche sperimentali e lontani dalla nostra abitudine di spettatori.

Francesco Bellia