L’importanza di chiamarsi Alì

“Ogni vero atto di volontà è immediatamente e ineluttabilmente un atto del corpo”. Quel ragazzino timido e dislessico che per dodici anni aveva sempre guardato la vita come una vetrina di dolci attraverso il vetro non sapeva neanche chi fosse Schopenhauer, ma appena mise piede nella caleidoscopica palestra Columbia Gym, sulle tracce di un poliziotto che avrebbe potuto aiutarlo a ritrovare la sua bicicletta appena rubata, rimase incantato a guardare giovani di tutte le razze che si allenavano per tirare di boxe e identificò in tutto e per tutto la sua vita in quella frase.

Così quell’ambiente fumoso impregnato dagli odori più acri, dove rimbombavano incitamenti e colpi di gong frammisti allo schiocco dei guantoni diventò il suo centro di gravità permanente e quando scoprì d’essere stato baciato dalla dea del talento, i suoi occhi non riflessero mai più la paura, ma erano lo specchio dell’avventura. Un round dopo l’altro col suo jab pungeva come un’ape e col magistrale gioco di gambe volava sul quadrato come una farfalla, trasformando ogni incontro in una specie di fuga per la vittoria. Modello inimitabile di leggerezza conquistò dunque, quasi per diritto divino, la medaglia olimpica nella categoria dei mediomassimi alle Olimpiadi romane del 1960.

E siccome ogni cosa che possediamo racconta la nostra storia, iniziò con il luccichio di quell’oro che orgogliosamente esibiva al collo come simbolo di attaccamento al suo paese, quella di un pugile ormai affermato che un giorno tentò di sedersi al tavolo di un ristorante per soli bianchi con il loro identico umore, ma con la pelle di un altro colore. Poco gli valse avere addosso come un talismano quel trofeo: il magico passepartout per conquistare un’America lontana come l’altra faccia della luna, non funzionò. Fu invece cacciato e inseguito da una banda di giovinastri. Si difese bene, ma deluso e indignato afferrò quel pezzo di gloria e lo gettò nel fiume Ohio.

Il suo nome era Cassius Clay e siccome continuavano a chiamarlo negro capì che il suo futuro non sarebbe stato per niente allegro.

A Louisville nel Kentucky, dove era nato nel 1942, sulla sponda sinistra di quel fiume, si era ritrovato nell’altra, quella dei ricchi. Qualche volta però una mossa sbagliata al momento giusto diventa decisiva e così un insopprimibile gesto di liberazione si trasformò in un perpetuo moto di ribellione, complici le assidue frequenze con Malcom X, estremista di punta dell’islamismo nero. Ormai uomo consapevole del suo valore sportivo, bussò alla porta del tempo: mise il suo orologio avanti e rese pensieri e azioni più forti e più distanti quando nel 1964 strappò la corona mondiale dei pesi massimi al truce ex galeotto Sonny Liston.

Dopo questa conquista, cambiar nome fu quasi automatico come a rinnegare un bruciante passato. Scelse dunque il nome di Muhammad Alì e rivelò al mondo l’immagine di un uomo di colore bello, bravo, vincente e soprattutto spudoratamente intelligente. Raggiunto il titolo, uno dopo l’altro, batteva tutti, bianchi compresi, a dispetto dei suoi detrattori con la ruvida spocchia del presuntuoso e con l’innato istinto pugilistico del fuoriclasse.

 

Parallelamente alla sua, l’escalation dei falchi Usa nel Vietnam non si placava e le due cose vennero fatalmente in conflitto: Alì fu chiamato a combattere quella guerra.
Il suo totale rifiuto all’abominio messo in scena per fantomatici interessi sovranazionali diventò il manifesto di un’epoca che, intramezzato alle vicende pugilistiche del campione invitto e irridente verso gli avversari, creò il mito dell’eroe moderno che riscattava una razza col suo modo di essere e proponeva l’universalità dei nobili ideali.

Fu condannato a cinque anni di carcere: gli fu tolta la licenza pugilistica dal 1967 al 1970 prima che la sentenza fosse annullata. Ricominciare non fu facile: il mondo in quel periodo iniziava a girare sempre più in fretta. Alla velocità della sua lingua affilata che lo tagliava in due come una mela Alì, tentò di adeguare il suo inimitabile pugilato fatto di scherma sopraffina, di millimetriche schivate, di micidiali serie a due mani, ma perse il confronto con il campione in carica Joe Frazier, un indomabile guerriero dal gancio sinistro proibito. Oltre la forzata inattività a un certo livello, lo sfidante pagò pegno per merito dell’irriducibile avversario che lo mandò addirittura al tappeto, poi si riprese in virtù della sua classe eccelsa, ma invano.

La querelle tra i due ebbe la naturale rivincita con la vittoria ai punti dal linguacciuto istrione di Louisville, che protervo nel frattempo aveva però dovuto subire una frattura alla mascella per mano del baldo Ken Norton prima di rimetterlo al suo posto, mentre lo sbuffante Smoking Joe, detto così perché avanzava sempre come un vecchio treno a vapore, andò a sbattere contro il super locomotore George Foreman, perdendo il titolo. Questo texano dal pugno di ferro, che aveva spiaccicato al tappeto per ben tre volte nella stessa ripresa il campione, era già noto agli onori della cronaca sportiva per aver picchiato come un fabbro tutti i malcapitati avversari a cominciare dalle Olimpiadi di Città del Messico 1968 e faceva sfoggio della sua inusitata potenza per arrogarsi la legittimità del più forte.

E al più forte poteva opporsi solo il più grande: Alì intuì che quella poteva essere l’occasione d’infilare un’altra perla nella collana dei suoi successi e sfidò il tronfio avversario. Furbescamente, giacché il combattimento era previsto a Kinshasa nello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, scatenò una specie di guerra santa fatta di rivendicazioni razziali e disinformazione cui l’acquiescente rivale, detto Zio Tom, poco esperto sul piano della comunicativa assieme al suo clan, abboccò colpevolmente.

Il 30 ottobre 1974, al grido di” Alì bumaye”, il ritornello universale del popolo africano contro l’imbattuto Big George dalla forza bruta, in un ambiente fuori dal comune andò in scena un capolavoro pugilistico che celebrò con un ko clamoroso la fantasiosa intelligenza tattica dell’uomo che volle farsi re.

La sua definitiva incoronazione avvenne contro lo storico nemico Joe Frazier a Manila nel 1975, dove in uno dei combattimenti più cruenti nella storia della boxe, con entrambi barcollanti e allo stremo, Alì, di un soffio in vantaggio ai punti, si aggiudicò il verdetto per il sofferto abbandono al gong dell’ultima ripresa del degno rivale. I due da quel match, non furono più gli stessi: Joe svuotato si eclissò ben presto, mentre Alì faticò non poco tra alterne vicende a riprendere il suo rango e dopo la malinconica rivincita, titolo in palio col prorompente Leon Spinks nel 1978, a suggello di un’inimitabile e pretenziosa carriera, si ritirò definitivamente nel 1981. Oggi al tremolante uomo sofferente nel corpo e con la mente confusa, rimane solo il cuore a ricordare con i suoi palpiti la gioia della dedizione: all’idea e alla professione.

Ti è piaciuto questo articolo? Metti mi piace a Social Up!

Vincenzo Filippo Bumbica