Ha debuttato il 18 ottobre al Teatro Nuovo di Milano, L’Esorcista, dall’omonimo romanzo di William Peter Blatty, adattato da John Pielmeier e portato per la prima volta in Italia in questo ottimo spettacolo con la regia di Alberto Ferrari, cui noi di Social up Magazine abbiamo avuto il “piacevole terrore” di assistere.
Se il film l’Esorcista di William Friedkin è il primo riferimento che viene in mente nel momento in cui ci si appresta ad assistere a questa rappresentazione teatrale (la pellicola di Friedkin è un classico dell’horror che ha terrorizzato generazioni di spettatori ed è anch’essa tratta dal romanzo di Blatty), una volta cominciato lo spettacolo, ci si rende conto di come si tratti di qualcosa di ben diverso, sebbene la storia narrata sia la stessa e il coinvolgimento-orrore non sia da meno, anche se declinato con altre sfaccettature, per certi versi più sottili e complesse rispetto a quelle offerte dal film.
Innanzitutto bisogna comprendere che ci si trova immersi in uno spettacolo teatrale, il quale per sua definizione non può mai indagare il fenomeno della possessione da un punto di vista ravvicinato, come è invece in grado di fare la macchina da presa, la quale può usufruire ad esempio di zoom, primi piani e carrelli in avvicinamento. Questo comporta una diversità di fondo immediatamente percepibile: più che l’orrore, la deformità e le aberranti trasformazioni corporee che il corpo della giovane adolescente Regan subirà durante la possessione, aspetti cruciali e in un certo senso iconici del film di Friedkin – il cui obiettivo principale era appunto descrivere in modo sconvolgente e provocatorio la mostruosità di un demone avvinghiato al corpo di una giovane innocente – la piece teatrale L’Esorcista punta fortemente su un elemento psicologico, più che orrido, provocando una suspance che avvicina questa rappresentazione più ad un thriller sovrannaturale, che ad un horror puro.
Questo non significa che lo spettacolo non sia spaventoso, anzi, l’indugiare più sulla dispersione interiore dei personaggi, sui loro dialoghi e i loro dubbi, sulle argomentazioni diabolicamente furbe del diavolo che possiede la bambina e sugli inafferrabili quanto nefandi obiettivi del demone, provocano un’angoscia ben più profonda, anche se meno spettacolarizzata. Fin dall’inizio dello spettacolo ci si rende conto del pregio della regia di Alberto Ferrari, la quale, molto intelligentemente si discosta dall’usuale ritmo dei tempi teatrali, velocizzando i passaggi da una scena all’altra con diversi importanti accorgimenti: innanzitutto la struttura del palco, il quale rappresenta per intero l’abitazione in cui si svolge la vicenda, dalla camera da letto di Regan, alla soffitta in cui la ragazzina incontrerà il demonio, al soggiorno.
Tutte queste location convivono e sono scandite da un sapiente utilizzo delle luci, le quali, quando assenti, riescono a mettere totalmente in ombra alcune zone del palco, permettendo agli attori di introdursi in esse senza essere minimamente visti dallo spettatore. Così, basta uno spostamento di luce per cambiare rapidamente scena e questa, come se si fosse in un film dal vivo, comincia immediatamente replicando il ritmo veloce di una pellicola. La luce, quindi viene utilizzata quasi come un meccanismo di montaggio live delle scene o se vogliamo come un ciak silenzioso, ma incredibilmente efficace; altro ciak è rappresentato da un suono sordo che si ripete ogni volta che si passa da una scena ad un altra, facendo sobbalzare con giusto tempismo gli spettatori. Musiche e comparto sonoro non sono da meno.
La voce demoniaca di Regan ad esempio è resa mediante una voce camuffata, assecondata dalla bravissima interprete (Claudia Campolongo) che nelle scene in cui emerge il diavolo si affida ad una gestualità spasmodica e all’espressività del volto, progressivamente abbrutito dagli effetti speciali man mano che la possessione assume livelli sempre più forti; per passare poi ad un interpretazione vocale propria quando la ragazzina è cosciente e in se (o meglio quando il diavolo che la domina le lascia un po’ di spazio). Il passaggio dall’una all’altra personalità è perfettamente scandito ed è inquietante proprio per la l’orrida fluidità con cui avviene, così come sono inquietanti e amplificati i rumori e le voci che si palesano negli spazi tendenzialmente silenziosi di scena, anticipati dalle musiche.
Come descritto il comparto tecnico di questo spettacolo è davvero notevole, solo così del resto, era possibile davvero portare un classico dell’horror a teatro, sconvolgendo e sfidando a resistere gli spettatori. Uno degli elementi più riusciti dello spettacolo è proprio la gradualità pressante e crescente della possessione e dell’esorcismo. Se la prima metà della rappresentazione ci racconta di come Regan venga a contatto col demone, delle reazioni di sua madre e dello “zio” Burke a questa vicenda, di come la ragazza palesi a poco a poco questa possessione, dei vani tentativi della scienza e dell’ipnosi di salvarla; la seconda parte è dedicata esclusivamente all’Esorcismo e agli esorcisti: dal prete-psichiatra Daniel, in crisi nella sua fede, a padre Merrin.
Al livello di sceneggiatura emerge la sottigliezza di alcuni passaggi della trama, che venivano messi in ombra dal predominare dell’orrido nel film di Friedkin. Innanzitutto è ben più tangibile la sinuosa capacità di persuasione del diavolo, il quale si presenta con diversi nomi a seconda dell’interlocutore che ha davanti: per Megan è Captain Howdy, un compagno di giochi che si dimostrerà a dir poco sadico e blasfemo, che, dopo averla ingannata e averla corrotta, la userà come uno strumento- giocattolo per attirare altre prede più succulente, i sacerdoti, che l’entità vorrebbe portare alla perdizione.
Agghiaccianti i dialoghi con padre Daniel: anche qui il diavolo si prende gioco di lui con le parole, arrivando a negare la religione e Dio con dialettiche stringenti, fingendosi spesso più vulnerabile o più debole di quanto sia in realtà, per poi colpire con ferocia. Ben presto il prete imparerà che è la voce di satana quella che non bisogna ascoltare, come gli suggerirà l’esperto padre Merrin, esorcista di lunga esperienza. Lo spettacolo teatrale fa emergere tutto questo, attraverso dialoghi sagaci interpretati con grande bravura da tutti gli attori, sempre ben consapevoli del proprio ruolo sulla scena. Tra essi spiccano Gianni Garko nei panni di Merrin, Claudia Campolongo nel ruolo di Regan e Andrea Carli nella parte di padre Daniel, i personaggi più intensi della rappresentazione.
Interessante anche il dilemma fede-ragione che porta un sacerdote- psichiatra, incline a negare la possessione, a prendere atto dell’esistenza fisica del male (un male che comunque esiste lì dove esistono gli uomini, perché si nutre del loro senso di colpa e del loro senso di vergogna dinnanzi al peccato) e, viceversa, porta una donna atea a credere in Dio e negli Esorcismi, un paradosso che è certamente provocatorio.
Nel complesso l’adattamento teatrale di John Pielmeier, su cui si basa lo spettacolo del Teatro Nuovo, dà forza al testo dell’opera di Blatty e permette di riscoprirlo, facendone emergere la complessità e la stratificazione, in modo ben più tangibile che nel film di Firedkin. Ne esce fuori una partecipazione emotiva e psicologica elevata, non solo una “lotta”-attrazione contro l’orrido, ma anche un porsi interrogativi dinnanzi alle forme in cui il Male può manifestarsi.
Uno spettacolo da non perdere dunque, in mano ad una regia e a degli attori davvero meritevoli, una rappresentazione in cui il teatro si avvicina molto al cinema, pur mantenendo un’identità propria molto forte. Piacerà agli amanti dell’horror, così come piacerà agli amanti del buon teatro.