Le inquietanti mummie delle “Catacombe dei Cappuccini”

Di Silvia Vassallo  per Social Up!

Esiste a Palermo un luogo tanto terrificante quanto suggestivo dove i vivi e i morti si incontrano: si tratta delle cosiddette “Catacombe dei Cappuccini”, più precisamente le cripte della chiesa di Santa Maria della Pace. In questo cimitero sotterraneo, lo spettacolo che si apre davanti agli occhi dei visitatori più coraggiosi è impressionante soprattutto grazie allo stato di conservazione degli innumerevoli cadaveri qui esposti. Uomini, donne e bambini appartenenti alla società cittadina palermitana che vissero fra il XVII e il XIX secolo, i cui volti appaiono ancora espressivi e i cui corpi vestiti si trovano appoggiati alle pareti, in una sorta di danza macabra, custoditi nelle loro nicchie.

Le “Catacombe dei Cappuccini” hanno una storia antica che iniziò quasi casualmente. Fino agli ultimi anni del 1500, i Frati seppellivano i confratelli defunti in fosse comuni situate sotto la chiesa, finché nel 1597 decisero di ricavare un cimitero sotterraneo più ampio scavando delle “Catacombe” dietro l’altare maggiore. Quando i Frati traslarono le reliquie dei loro confratelli seppelliti nella prima fossa per portarli nella nuova sepoltura, si accorsero con grande stupore che quarantacinque corpi erano rimasti praticamente intatti, mummificati naturalmente. Accogliendo il miracoloso evento come un segno della benevolenza divina, i Frati decisero allora di non seppellire più questi corpi ma di esporli in piedi dentro le nicchie alle pareti del primo corridoio nelle nuove Catacombe.

L’incredibile scoperta portò una certa fama al convento e i Frati cominciarono ad accogliere un numero sempre maggiore di salme, concedendo la sepoltura non solo ad altri prelati, ma in generale a tutti coloro che fossero in grado di permettersi i costi di un’imbalsamazione. Così, fino alla fine dell’Ottocento, le famiglie più facoltose della nobiltà siciliana affidarono i loro defunti ai Cappuccini i quali, dopo l’imbalsamazione, esponevano le salme nei corridoi della cripta dove poi i parenti potevano far loro visita. Grazie a questa forma di contatto diretto fra mondo dei vivi e mondo dei morti, il cimitero “privato” dei Frati finì per trasformarsi in un museo a porte aperte, assumendo progressivamente l’assetto che presenta ancora oggi, e le varie mummie furono collocate in corridoi distinti in base alla professione, al sesso e allo status sociale.

Il cimitero venne chiuso ufficialmente nel 1880, anche se agli inizi del Novecento accolse in via eccezionale altre due salme, quella di Giovanni Paterniti, viceconsole degli Stati Uniti, e soprattutto quella della piccola Rosalia Lombardo, figlia di una ricca famiglia della città e morta alla tenera età di due anni. Spesso definita come la “mummia più bella del mondo”, fu imbalsamata da un noto imbalsamatore palermitano dell’epoca, il Dottor Alfredo Salafia, cui il padre decise di affidare la sua bambina affinché “vivesse in eterno”.

E in effetti il corpo della piccola Rosalia, che riposa dentro un’urna hi-tech satura di azoto per prevenire ogni accenno di decomposizione, sconvolge per il perfetto stato di conservazione. Rosalia, con il suo volto lucido e delicato, non sembra morta, al contrario presenta solo l’aspetto di una bimba che dorme profondamente. Inoltre proprio alla piccola Rosalia è legato un episodio a dir poco agghiacciante, avvenuto qualche anno fa: dalle registrazioni delle telecamere installate dove riposa il corpo, si notava infatti che la bambina apriva e chiudeva gli occhi, più volte al giorno. Qualcuno ha gridato al miracolo, qualcuno ha parlato di fenomeno paranormale, altri l’hanno considerato una trovata pubblicitaria, altri ancora hanno parlato di illusioni ottiche.

Al di là di questo “piccolo” mistero irrisolto, le “Catacombe dei Cappuccini” offrono un percorso da brivido imperdibile lungo il quale non ci si può non interrogare sui quesiti che da sempre turbano l’uomo, quello della morte e della vita dopo la morte. Rosalia Lombardo e tutte le mummie che, immobili e silenziose, osservano i passanti dalle loro nicchie non sono altro che la testimonianza concreta, “viva” di questi grandi misteri. Per citare le parole di Ippolito Pindemonte che, sul finire del Settecento, dedicò loro uno dei versi della sua opera più celebre, i “Sepolcri”: “Morte li guarda e in tema par d’aver fallito i colpi.”

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