La forma dell’acqua: una fiaba formale, ma non così autentica, sulla diversità

Vincitore del Leone d’oro alla 74 edizione del Festival di Venezia e candidato a ben 13 premi oscar La forma dell’acqua di Guillermo Del toro è una fiaba sulla diversità, ben realizzata al livello tecnico ed estetico dal regista: un film di mestiere, che unisce con buon equilibrio elementi poetici, ironia, una denuncia sottesa e anche un certo gusto per il macabro (molto caro al regista). Non si tratta tuttavia dell’opera più originale dell’autore né a parere di scrive di un capolavoro. Nonostante il successo ottenuto, infatti, “La forma dell’acqua”, in molti punti è un film più attento alla “forma” e a far combaciare ognuno dei suoi elementi che non all’empatia dello spettatore con i personaggi da esso delineati, elemento fondamentale, presente ad esempio in altre fiabe fantasy e fantascientifiche che sono diventate caposaldi del cinema di genere, come in E.T. di Spielberg ed Edward Mani di Forbice di Tim Burton, sui cui torneremo per operare un confronto.

La trama del film di Del Toro è abbastanza lineare: Elisa (una convincente Sally Hawkins), è una donna affetta da mutismo, che a Baltimora conduce una vita solitaria ed emarginata, nonostante l’amicizia del disegnatore un po’ fallito Miles (Richard Jenkins) e di Zelda (Octavia Spencer), assieme alla quale lavora come addetta alle pulizie in un laboratorio governativo. Proprio in questo luogo si imbatte un giorno in una straordinaria creatura dall’aspetto di uomo-anfibio, che è stata portata lì per essere studiata ed esaminata.

Siamo in piena guerra fredda e sia i russi che gli americani vogliono sapere quali misteri si celino nel corpo dell’essere. Alla violenza del Colonnello Richard Strickland (Michael Shannon), più interessato a imporre il suo dominio sulla creatura, per sottometterla e annichilirla, per sentirsi a lei superiore, piuttosto che a comunicare con essa; si contrappone invece la strana ma sincera attrazione (quasi un colpo di fulmine), fin da subito anche fisica, che Elisa prova nei confronti del mostro. Di fronte al pericolo che la fantastica creatura sia torturata o uccisa, la donna decide di organizzare una rischiosa fuga; ma incontrerà numerosi ostacoli sul suo cammino, tra cui la folle violenza di Strickland, sempre più abbrutito dai fallimenti riportati.

E’ indubbio che il film deve molto ai due interpreti Sally Hawkins e Michael Shannon. L’attrice è il vero fulcro poetico della pellicola.La sua gestualità e la sua eleganza nell’approcciarsi timidamente, prima, poi in maniera sempre più decisa, quasi risoluta, alla creatura rendono con aggraziata poesia il bisogno di riscatto e di realizzazione personale di una donna emarginata, bravissima ad ascoltare, senza essere però mai ascoltata davvero. In tal senso una delle scene più belle del film è proprio quella di cui Elisa insiste per trattenere l’amico Miles e spiegargli cosa lei prova nei confronti dell’uomo-anfibio. Lo costringe a ripetere a voce alta le sue parole per dare loro la “forma” e la consistenza che meritano, quella che lei non può conferire, perché muta. “Tu mi capisci ma non mi ascolti. Ripetile ad alta voce così che tu le possa ascolatare davvero”. 

Con il linguaggio dei segni e con il suo sguardo – l’attrice utilizza quest’ultimo con grande espressività – racconta la somiglianza e l’affinità che lei sente nei confronti della creatura. Come lei muta, come lei sola, come lei incompresa. Questo dialogo incarna il messaggio di fondo di tutto il film. La lotta per amore di Elisa, infatti, rappresenta la lotta del diverso e dell’emarginato per riaffiorare in superficie, e non restare sul fondo muto dell’indifferenza e dell’incomprensione.

Così l’amico omosessuale e artista in crisi, Miles, l’amica di colore Zelda e perfino il medico russo che crede nella scienza e non nelle logiche di potere, anch’essi degli emarginati, aiuteranno la donna a realizzare i suoi desideri. Anche il cattivo, il Colonnello Strickland, interpretato con padronanza da Michael Shannon, è in fondo, a suo modo un emarginato, uno che al contrario degli altri però è disposto a tutto pur di negare la sua diversità ed aggrapparsi all’identità fittizia che la società ha costruito per lui fino a tramutarlo in un mostro. Un’identità di violenza, maschilismo e vano patriottismo: una chiara stoccata del regista messicano Del Toro ai valori militareschi degli Stati Uniti d’America.

Come si è visto i significati non mancano nella fiaba di Del Toro, il problema è che essi sono un po’ troppo pilotati dal regista. L’incontro di tutti questi emarginati che si coalizzano per assecondare i desideri di Elisa, risulta in realtà abbondantemente costruito e in fin dei conti poco autentico, quasi indirizzato, per fare bene ed ottenere audience (che poi in effetti ha ottenuto). Un altro aspetto un po’ debole del film è la figura dell’uomo-anfibio: risulta chiaro fin da subito che la sua presenza è più strumentale che effettiva. Il mostro non è altro che un escamotage per raccontare una fiaba sul diverso. Non ha una personalità e dei connotati distintivi degni di particola memoria o originali, come li aveva invece Il Fauno ne Il Labirinto del fauno dello stesso regista, un’opera molto più cupa, ma decisamente più profonda, conturbante e innovativa. L’empatia e il mistero della creatura di La forma dell’acqua si mantengono su livelli bassi. Lo stesso corteggiamento tra l’essere ed Elisa è rapido, frettoloso, molto curato al livello estetico (esempio la scena delle uova) ma decisamente meno su quello emotivo.

La Hawkins assume per intero il compito di simboleggiare questo amore: è su di lei che si modellano le reazioni del mostro. Nonostante sia molto brava, in questo ruolo atipico per lei, spesso portata ad interpretare personaggi stravaganti che parlano molto come in Blue Jasmine e in Happy go Lucky (in cui mostra tutta la sua personalità e il suo talento di attrice); il suo apporto non basta, perché la creatura verso cui Elisa rivolge il suo amore è quasi uno stereotipo (che ricorda molto il mostro della laguna, ma anche Abe Sapien, l’essere acquatico di Hellboy, molto più affascinante di quello qui descritto) che risulta privo di sue proprie emozioni, il che banalizza molto il tema, che doveva essere il centro della pellicola: cioè la relazione tra la donna e il mostro.

Per fare un confronto con un altro film che non racconta una storia d’amore, ma una profonda amicizia, in E.T, i gesti, la personalità dell’alieno sono molto più attenzionate, al punto da far sì che lo spettatore si affezioni alla creatura e rimanga colpito ed emozionato nei momenti cruciali della storia in cui E.T ed Eliot sono divisi. In poche parole c’è molta più empatia, perché la diversità del mostro è analizzata con dovizia di particolari e sono questi elementi a fare di E.T un capolavoro. Lo stesso avviene nel bel film Edward mani di forbice di Burton: ad una forma estetica impeccabile della pellicola che contrappone i colori sgargianti di una società falsamente perfetta all’oscurità di Edward e del suo castello si accompagna una puntuale descrizione della strana e graduale attrazione che la ragazza protagonista (Winona Ryder) prova nei confronti del deforme e goffo Edward, in realtà un artista sensibile e autentico, che lei preferisce all’ipocrisia di chi la circonda. Il capolavoro di Burton mostra chiaramente i difetti del film di Del Toro. La forma dell’acqua è un film sulla diversità, nel senso che usa quest’ultima come morale della favola piuttosto che analizzarla fino in fondo e coglierne le sfumature più profonde. In Edward Mani di forbice il discorso è molto più tagliente e acuto: chi è il vero mostro sembrerebbe dire Burton agli spettatori? Chi ha delle forbici per mani ma le usa per creare cose belle? O chi invece appare normale, ma in realtà usa qualsiasi mezzo a suo disposizione per distruggere? Un altro aspetto che non è presente nel film di Del Toro è il mistero della mostruosità che ad esempio ritroviamo in una delle più celebri storie Disney: la Bella e la Bestia. In The Shape of Water Elisa si innamora subito della creatura: non c’è nessun crescendo, non vi è alcuna seduzione tra i due, nessun mistero. Il regista punta sulla loro attrazione istintiva, che fin da subito è anche corporea. E’ un’idea interessante che egli ha ben realizzato in alcune scene tecnicamente molto belle e raffinate, come quella della stanza da bagno che si trasforma in acquario, senza dubbio la migliore scena del film, assieme al finale; ma l’impressione complessiva che si ha al termine della visione è un po’ quella di una “favoletta”: ben orchestrata, ben girata, ma ben lontana dall’essere un capolavoro, perché un po’ fredda e impersonale. Rappresenta un passo indietro ad esempio da Il Labirinto del Fauno, una fiaba-horror che incarna con molta più efficacia il vero cinema di Del Toro, che si alimenta di mostri conturbanti e misteriosi, ambiguità orride e attraenti al tempo stesso (si vedano anche Hellboy, La spina del diavolo, ma anche a suo modo Pacific Rim), che fa della mostruosità un tema centrale dei suoi film, qui invece poco approfondito. E’ come se il regista messicano si fosse sforzato di non essere se stesso e di scendere a compromessi con il pubblico e questo sforzo si avverte, perché ,anche se magari è più accessibile, La forma dell’acqua è più finto, meno originale e più costruito di altri film dell’autore. E’ una buona fiaba che però non arriva a coinvolgere fino in fondo lo spettatore, semmai semplicemente ad intrattenerlo, con delicatezza e leggerezza, ma senza brillare di luce propria

In chiave oscar, le candidatura ad Octavia Spencer e Richard Jenkins sembrano più dettate dall’entusiasmo, che da altro. Meritata invece la candidatura di Sally Hawkins che dovrà vedersela soprattutto con Frances Mcdormand come migliore attrice protagonista. Tra le 13 ricevute, le candidature più meritate sembrano essere quelle alla: fotografia, scenografia e costumi. Per quanto riguarda la fotografia, ad esempio è maniacale l’utilizzo dei colori, sui cui predomina il verde acqua, dalla torta comprata nel pessimo bar dietro l’angolo, alla divisa di Elisa, fino alla vasca in cui è prigioniero il mostro anfibio (tra l’altro nel film un pubblicitario dirà esplicitamente che il verde è il colore dell’anno quasi a sottolineare la scelta registica). Un’ultima nota merita il citazionismo di cinema e televisione nel film, operato tra le righe, con abilità, come nella scena in cui il mostro si perde e rimane smarrito davanti al maxischermo di una sala cinematografica.