Visto al Cinema Ariston di Catania, in una sala gremita di pubblico, La favorita di Yorgos Lanthimos è un film in costume, che, come accade spesso nel cinema del regista greco, travalica i generi, disintegra gli steriotipi e rappresenta un’ulteriore dimostrazione di carattere e di stile da parte di questo originalissimo autore, capace di coniare un linguaggio cinematografico proprio, attraverso un’ironia bizzarra e graffiante, posta al servizio di una regia sperimentale, tecnicamente elaborata e densa di metafore, che volutamente risulta essere beffarda, cinica e provocatoria, il tutto, tenendo lo spettatore incollato allo schermo.
In quest’ultima opera in particolare, candidata a ben 10 premi oscar, gli intrighi politici si fondono con quelli amorosi, in dinamiche di potere sempre più “degradanti” e meschine, che mostrano la falsità e la vacuità della vita di corte. Il film è ambientato in Inghilterra, durante la monarchia, in un’epoca in cui è al trono una fragile e volubile regina, Anna (Olivia Colman), malata di gotta e manipolata come fosse una bambina o una capricciosa adolescente da Lady Sarah Churchill (Rachel Weisz), la sua “Favorita” a corte.
L’importante posizione occupata da quest’ultima, che riveste un ruolo politico di primo piano e spinge per la prosecuzione della guerra contro la Francia, sembra non poter essere messa in discussione da nessuno; ma l’arrivo di una sua lontana cugina Abigail Masham (Emma Stone ), destabilizzerà abbastanza velocemente questo primato costruito con fatica nel tempo. Apparentemente vittima di un triste passato, che l’ha vista perdere la sua originaria nobiltà per un debito di gioco del padre, la nuova venuta, si mostrerà ben presto tutt’altro che un’ingenua, al contrario, una arrampicatrice sociale, nonché una “terribile serpe”, capace di scorrettezze e nefandezze di ogni genere pur di risalire dalla china della povertà e della mediocrità in cui era precipitata. Il gioco per essere la Favorita si farà sempre più spietato e doloroso per tutte e tre le donne.
Thriller e satira si mescolano in questo film, che pur essendo per molti versi grottesco e velato di ironia, è a tratti efficacemente drammatico e conturbante, soprattutto per come annienta con cinismo la validità di qualsiasi sentimento, dopo averlo descritto e rappresentato sulla scena. E’ la cifra unica di Lanthimos, per il quale gli esseri umani non sono altro che delle maschere, quasi incapaci di provare reali emozioni. Come nell’intelligente e brillante The Lobster, ancora più estremo e feroce di La Favorita, l’umanità è sorretta da bisogni volubili e incostanti, l‘amore non esiste, se non in quanto strumento di controllo, giogo per imporre dipendenza, semplice somiglianza, capriccio momentaneo o pragmatico “patto” di dare e avere.
Le tre donne protagoniste: le due cortigiane e la regina, sono emblema di questa condizione universale. Non è un caso che la vicenda sia abbastanza vaga per quanto riguarda i riferimenti storici, ciò che interessa a Lanthimos sono i personaggi, non l’epoca in cui è ambientata la pellicola. La ricchezza e lo sfarzo della corte gli sono congeniali più che altro per esercitare la sua stravagante ironia, un black humor freddo, a volte volutamente ridicolo con cui deride e compatisce le “figurine” che vivono in questo mondo fatuo, fatto di cerimonie vuote, ninnoli e orpelli senza alcun significato.
Le tre attrici protagoniste. sono davvero strepitose, tutte e tre meritevoli della statuetta per cui sono candidate. Spiccano Olivia Colman (da oscar) e Rachel Weisz, che, nonostante la bravura della Favorita rivale Emma Stone, qui alla sua migliore interpretazione (al contrario del sopravvalutato ruolo in La La Land che le valse l’oscar) sembra più papabile per la statuetta come miglior attrice non protagonista.
Accanto alla notevole interpretazione attoriale, un altro elemento chiave è rappresentato dalla regia. Lanthimos, come in altre sue pellicole, sperimenta molto. Se da un lato è molto attento agli sfarzi della corte e agli oggetti che “popolano” le stanze della regina e del palazzo, dall’altro rappresenta i colori con chiaroscuri che spesso fanno apparire dismessi gli ambienti. La luminosità è ridotta, la “meraviglia” dell’opulenza di corte è oscurata dalle ombre sinistre che si celano negli anfratti, negli immensi corridoi, in cui è facile perdersi e dall’”incertezza” degli spazi, che, tramite diverse tecniche, il regista tende a deformare. L’uso di molte inquadrature dal basso ad esempio fa “torreggiare” i personaggi (spesso truccati in modo volutamente ridicolo), rendendo implicitamente il giogo del potere, a cui tutti possono essere sottoposti, spesso senza accorgersene: dalle Favorite, serve dei capricci e delle voglie della regina, alla sovrana stessa, marionetta stupida in mano alle cortigiane e al Parlamento. Nessun ruolo a corte è mai definito: la propria sorte può mutare dall’oggi al domani, che si tratti di quella di una serva, o che si tratti di quella di un potente. Tutto ciò sovraccarica di angoscia i personaggi e lo spettatore: un’ angoscia rincarata dalle musiche disturbanti con cui il regista fa crescere la tensione come se si fosse in un thriller.
Proprio questo continuo cambiamento di ruoli è rappresentato spesso da slittamenti laterali di macchina (un po’ alla Wes Anderson), che manifestano la finzione cinematografica e al contempo disorientano lo spettatore, che vede i luoghi e i personaggi ribaltarsi rapidamente all’interno di una stessa inquadratura. Che dire poi dell’utilizzo dei carrelli, in avvicinamento o in allontanamento? Una tecnica notevole, fluida e magnetica, perfettamente al servizio della narrazione. Ulteriore elemento straniante, è l’utilizzo di inquadrature grandangolari che dilatano e deformano lateralmente l’immagine, per alcuni brevissimi frames.
Tutte queste tecniche sono impiegate per descrivere i labirinti del potere che avvincono tutti i protagonisti del film, i quali vagano in realtà senza meta, dalla regina sulla sedia a rotelle, che arranca in sproporzionati corridoi, alla Favorita Abigaile, la quale, come si evince nel finale metaforico della pellicola non è diversa da un coniglio spaventato e confuso che scorrazza senza meta in una stanza, senza sapere nemmeno lei cosa desiderare in realtà, forse un po’ come tutto il genere umano, nella visione del regista.
Come si evince da quanto detto siamo dinnanzi ad un ottimo film. Estremamente originale e complesso. Unico nel suo genere, come unico è lo stile di Lanthimos. In chiave oscar siamo dinnanzi ad un grande evento: raramente, infatti, un film così sperimentale e atipico riceve tutte queste candidature dall’accademy. Molti premi sarebbero meritati: tra questi, quelli agli attori, ma anche alla miglior regia, alla miglior sceneggiatura, al miglior montaggio. Regia e montaggio in particolare, per l’originalità e la sperimentazione dello stile, sarebbero da preferire anche al pure raffinato Roma di Cuaron, che, sebbene stilisticamente accurato, appare per molti versi più tradizionale. Sarebbe la giusta “consacrazione” per Lanthimos, una voce fuori dal coro, che ha davvero molto da dire, non solo per se stesso (un po’ il limite di Roma di Cuaron, una pellicola a tratti troppo personale), ma anche agli altri, perché utilizza metafore universali, attraverso una spiazzante ironia e narrazioni “categoriche” che giocano sulla derisione dei personaggi e sul perseguimento di scelte estreme e assolute. Per queste ragioni sarebbe meritato anche il premio come miglior film.