Intervista ad Alessia Scarso: “L’arte aiuta a guardare oltre ciò che siamo”

Amici di Socialup abbiamo avuto il piacere di intervistare Alessia Scarso, giovane regista emergente nel panorama del cinema italiano contemporaneo.

 

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Classe 1979, nata a Modica in Sicilia e diplomata in montaggio al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, ha collaborato come montatrice e coordinatrice di postproduzione con diversi giornalisti, produttori e registi, lavorando a inchieste giornalistiche, film, documentari. Come regista ha diretto numerosi spot e documentari istituzionali. Ha debuttato alla regia di fiction con il corto “Disinstallare un amore”, per cui ha riportato svariati premi. Il suo primo ed attualmente unico lungometraggio è “Italo”, un film che parla al cuore di grandi e piccini, da lei diretto nel 2014, con Marco Bocci ed Elena Radonicich nel ruolo di protagonisti.

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Come è nata in lei la passione per la settima arte?

Avevo 12 anni. I miei non usavano andare al cinema, quindi ho visto il mio primo film a quell’età in sala con la scuola. Sapevo cosa aspettarmi, ma l’esperienza diretta mi fulminò. Capii immediatamente che quella relazione intima tra lo spettatore e una storia raccontata sul grande schermo era quello che avrei voluto nella vita. Da lì in poi non ho mai smesso di raggiungere il mio obiettivo.

 

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Qual è per lei la differenza tra il cinema documentario e il cinema di finzione e quali sono gli aspetti secondo lei che li accomunano?

Il cinema di finzione racconta storie che potrebbero essere vere. Il cinema documentario racconta storie che potrebbero essere falsate. Non distinguo molto tra i due. Nel cinema documentario anche solo posizionare la macchina da presa sceglie un punto di vista, il che significa escluderne altri. È come nella meccanica quantistica: l’osservatore determina la realtà. Ciò che accomuna le due modalità di racconto è l’emozione.

 

 

Fotografia di Alessia Scarso

 

 

 

 

Mi spiega brevemente la genesi del suo primo lungometraggio di finzione, “Italo”?

Mi sono formata come montatore al Centro Sperimentale di Cinematografia con il preciso intento di conoscere il linguaggio cinematografico nella sua declinazione più strutturale, per poi applicarmi nel racconto dal punto di vista della regia. Una volta impadronita della tecnica ho tentato un primo racconto attraverso la regia, un cortometraggio chiamato “Disinstallare un amore”, che è stato molto apprezzato in tutto il mondo. Ero pronta per il grande salto e mi serviva una bella storia. Volevo che fosse una storia d’amore, nella declinazione più pura dell’amore. Un giorno ho conosciuto Italo, il vero Italo, passeggiando per le strade di Scicli. Ho approfondito la sua storia, mi sono fatta raccontare la sua vita, e ho capito che era lui la mia storia d’amore. La più autentica che potessi trovare.

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Ha qualche aneddoto o curiosità particolare da rivelarmi sul film?

Al cinema si evitano le famose tre B, definite con “bambini, barche e bestie”, per via della difficoltà logistica e organizzativa che comportano. Un film sulla relazione tra un cane e dei bambini lo si può pensare solo in due occasioni: o quando hai grande esperienza e ti cimenti in qualcosa di molto difficile, o quando non hai nessuna esperienza e non sai in che guaio ti stai cacciando. Io mi sono cacciata nel guaio. Per di più è stata un’opera prima non solo per la regia, ma anche per la sceneggiatura e per la produzione. Questo riempie di aneddoti e curiosità praticamente ogni aspetto di tutta la creazione. Le curiosità più divertenti sono da attribuire chiaramente alla gestione del cane sul set. È il più tutelato di tutti, trattato come una star, esce dalla cuccia solo dopo il ciak e vi rientra subito allo stop, ha il suo ombrellino sotto al sole, ci sono precise tecniche di addestramento attraverso piccoli premi e nelle location in interno tutto odora di würstel. Per lui recitare è un gioco, non ci si può relazionare con lui per tutta la durata delle riprese per non distrarlo: ignorarlo è stato l’aspetto più difficile delle riprese.

 

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Che impatto ha avuto “Italo” sui giovani e sulla critica e perché, secondo lei, andrebbe visto da tutti?

“Italo” è un film per tutti perché la vera storia di Italo è stata vissuta e apprezzata da persone di ogni età. Il linguaggio del film è molto semplice, non ci sono tecnicismi, desideravo massima naturalezza di espressione per lasciare che la storia si raccontasse senza virtuosismi. Ha colpito dunque più di tutti i bambini, perché si sono lasciati rapire come quando gli racconti una favola. La critica l’ha considerato un buon esordio, con qualche ingenuità che si può perdonare ad un’opera prima. Io continuo a pensarlo come una specie di miracolo, in particolar modo produttivo, perché abbiamo fatto tutto da noi, una produzione indipendente con un film logisticamente complesso. Perché andrebbe visto da tutti? Per conoscere ltalo, che ha lasciato un segno importante in quanti l’hanno incontrato, e da un punto di vista tecnico per l’audacia con cui ci siamo buttati. O meglio… buttate. È stato un set prevalentemente al femminile.

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Mi parli ora del suo rapporto con la fotografia, specialmente l’astrofotografia.

La fotografia è intanto l’osservazione del reale attraverso una lente. Quando racconti per immagini il tuo sguardo passa necessariamente attraverso un’interpretazione ottica della realtà. Dunque è prassi, per un regista, guardare attraverso un obiettivo. Sono inoltre un’osservatrice della natura, specie in notturna, e dunque dell’universo. Vado spesso a pescare sulla spiaggia di notte. Pian piano ho cominciato a portare con me la macchina fotografica e a tentare di intercettare ciò che l’occhio umano non riesce a vedere. Desideravo andare sempre più a fondo e pian piano ho acquisito sensibilità e pratica. Alla fine è diventato un atto di contemplazione, quasi una preghiera. A lungo le foto sono rimaste nel mio cassetto, poi mostrandole ad amici ho capito che emozionavano anche loro. E siccome il bello è più bello se condiviso, ho lasciato loro aperta la porta e le ho pubblicate. Sono molto apprezzate, ma per me rimangono un momento intimo. Fotografo da sola, o in compagnia di persone fidate, amiche, con le quali riuscire a condividere quel momento con lo stupore dei bambini.

 

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Ha in mente nuovi progetti o particolari sogni artistici nel cassetto?

Credo non mi basterebbe un’intera e lunga vita per mettere in pratica tutto ciò che mi gira nella mente. Al momento sono concentrata su tre, quattro progetti. Ma mentre la mente è libera di vagare e immaginare, la messa in pratica è molto difficoltosa, e con “Italo” mi sono resa conto di quanti aspetti bisogna tenere in considerazione dopo che hai immaginato una storia da raccontare, per farla arrivare dove vorresti. La macchina cinematografica è costosa. Invidio gli scrittori, che necessitano di una penna, o i pittori, che necessitano di tele, pennelli e colori. Nel modo che ho scelto per esprimermi c’è bisogno di condivisione con molti professionisti e soprattutto un apporto economico importante, di quelli che nessuno potrebbe permettersi da solo, e dunque ci si confronta con il mercato. Ed è una lotta. Perché la mente di un narratore non ha certo una forma economica. C’é una cosa però che accomuna e conduce la strada: l’emozione. “Italo” ha funzionato perché si è trovata sintesi sinergica di idea, produzione, distribuzione e pubblico. Ma mi auguro che altre storie, magari meno condivisibili, possano farsi strada. Siamo circondati da retorica. L’arte aiuta a guardare e guardarsi oltre ciò che siamo, specie quando ti scuote dal tuo posto sicuro. Bisogna avere il coraggio di andare oltre il conosciuto e il desiderato, per scoprire nuove emozioni. Ci attende una grande sfida, in questo momento storico di crisi epocale, sanitaria, economica ed anche esistenziale. I finanziamenti e gli investimenti saranno molto oculati. Mi auguro che sapremo guardare lontano e in profondità più di quanto non abbiamo mai fatto.

Uno sguardo puro, appassionato, ottimistico sulla realtà ci lascia, oltre che queste belle parole, un profondo messaggio. E noi, invece, ad Alessia auguriamo di continuare a donarci arte, ovvero speranza.

Christian Liguori