Intervista a Willie Peyote: “Sottovalutiamo la libertà d’espressione”

Il 6 ottobre 2017 è uscito “Sindrome di Toret”, il nuovo progetto discografico di Willie Peyote per l’etichetta 451 con distribuzione Artist First. A distanza di più di un mese dalla pubblicazione, il disco sta riscuotendo molto successo e le prime date del tour in giro per l’Italia sono andate sold out con la richiesta di nuove date. Per i più attenti, però, il riconoscimento del talento di Peyote non è inaspettato, ma è solo la giusta ricompensa per una musica ben scritta, suonata e cantata dai testi densi e profondi.

In “Sindrome di Toret”, infatti, il cantautore affronta il tema della libertà d’espressione tra l’avvento dei social network e margini di censura che sono stati notevolmente ampliati.

Dal disco sono stati estratti i singoli “Ottima scusa” e “Metti che domani”, ma canzoni come “Avanvera”, “Le chiavi in borsa”, “Il gioco delle parti” e “Vilipendio” sono validissimi motivi per ascoltare l’intero album del cantautore.

Tra una data e l’altra del tour che presto toccherà Fermo, Firenze, Genova, Livorno e Brescia, abbiamo avuto il piacere di intervistare Willie Peyote. Piacere, è così. Avete letto bene. Willie ci ha raccontato molto del disco, delle collaborazioni, della libertà, dell’amore e dei programmi futuri con disinvoltura ed ironia, veicolando il chiaro messaggio che non è abusando del diritto ad esprimersi che si diventa più liberi. E poi anche sui talent non è stato così magnanimo…

Ci racconteresti la storia di Willie Peyote, i primi passi nel mondo del rap fino alla realizzazione di “Sindrome di Toret”?

È una storia tutto sommato abbastanza lineare. Ho iniziato a fare la musica quando avevo all’incirca quindici anni. Prima mi piaceva il rap ma in realtà i miei genitori, essendo musicisti, mi hanno incentivato a suonare uno strumento e ad approcciarmi alla musica suonata. La mia prima esperienza musicale l’ho avuta in un gruppo punk in cui suonavo il basso. Verso la fine delle superiori, ho conosciuto Kavah che ancora oggi lavora con me ed è il primo bitmaker che ho conosciuto e con lui abbiamo iniziato a collaborare. Abbiamo sempre lavorato insieme fino ad arrivare all’ultimo disco. Dall’incontro con Kavah è stato un percorso abbastanza lineare se non per il fatto che intorno ai venticinque anni mi sono un po’ disamorato della scena rap italiana ed ho smesso di fare rap iniziando a suonare la batteria in un gruppo rock però più o meno da quando ho 19 anni nutro questa passione e cercavo di renderla un lavoro. Ci ho messo un po’ a farlo, però non era neppure scontato riuscirci.

A proposito di “Sindrome di Toret”, perché hai scelto questo titolo?

Nasce dal fatto che il tema portante del disco è la libertà di espressione. È una sorta di incontinenza verbale, se così vogliamo chiamarla. Così mi è venuto in mente la sindrome di Toret che è un disturbo neurologico in base al quale chi ne è affetto non riesce a trattenere non solo tic fisici ma anche alcune affermazioni verbali. Quindi l’ho presa come spunto per raccontare questa incontinenza verbale aggiungendo però un gioco di parole sulle fontanelle tipiche della mia città sempre per dire grazie alla città che negli ultimi anni mi ha davvero portato in palmo di mano.

Il disco affronta il tema della libertà d’espressione ed i suoi limiti. Cosa significa per Willie Peyote essere libero di esprimersi?

Ovviamente sento la responsabilità della libertà di espressione. Ciò che cerco di dire nel disco è che sottovalutiamo questo diritto parlando a vanvera e rendendolo vuoto in realtà. Viviamo in un’epoca in cui tutti abbiamo diritto di parola. La censura quasi non esiste più, o meglio non è vero che non esiste più ma adesso siamo tutti più liberi di parlare rispetto ad anni fa. Solo la mia paura è che parlando tutti troppo si finisca per ridurre questo diritto ineliminabile dell’uomo insignificante perché se parliamo tutti in realtà non sta più parlando nessuno. Nella confusione non si capisce più niente. Il mio problema sulla libertà di espressione è quello: talmente ne abusiamo che in realtà è come non averlo.

In “Avanvera” non le mandi di certo a dire ed intoni: “devo imparare a dire no perché la gente parla a vanvera/e non lo so per quanto ancora reggerò, chi è il prossimo che sale in cattedra? /a parte i verbi e forse l’algebra hanno tutti da insegnare. un popolo di Alberto Angela”. Italiani popolo di sapientoni e saccenti o c’è speranza di redenzione?

Non credo sia un problema solo italiano. Io credo sia un problema molto più diffuso a livello proprio internazionale. La libertà di espressione sul web e i vari social network ci hanno reso un po’ tutti più coraggiosi e, come dire, deresponsabilizzati delle nostre affermazioni perché nessuno paga più per quello che dice. Spesso io stesso mi faccio trascinare in discussioni prive di senso che non ha senso affrontare se chi dovrebbe ascoltarti non è interessato. Dovrei imparare a dire no, quindi, nel senso che ogni tanto dovrei abbozzare.

Sempre in “Avanvera” rappi: “che poi sai non discrimino, andrei pure a Sanremo/perché convincere chi è già d’accordo è facile, scemo!” Quindi, non ti vedremo mai sul palco dell’Ariston? Cosa pensi delle manifestazioni di questo tipo?

Io ci andrei a Sanremo (n.d.r. il Festival della musica italiana). Io non discrimino è una battuta. Finora non c’è stato margine per farlo, ma non escludo che in futuro non possa accadere. Ci sono manifestazioni e manifestazioni. Sanremo è un discorso che non è paragonabile ai talent. Ora a Sanremo vai a portare un pezzo inedito ed è una performance di un certo tipo con un’orchestra di duecento elementi davanti praticamente a tutta la nazione che ti guarda. È una roba da professionisti Sanremo. Nei talent ti fanno fare le cover dei gruppi che neanche ti piacciono e sono tutti molto più attenti alla forma quindi c’è la truccatrice chi ti dirige la performance e vieni giudicato tutto sommato da persone che di musica ne capiscono fino ad un certo punto. Quindi, sai, è tutto un discorso diverso. A Sanremo ci andrei. Ad un talent non parteciperei neanche in veste di giudice perché in fondo lo trovo un metodo per prendere notorietà versò sé stessi e non per aiutare qualcuno. Non giudico chi lo fa, ma io non lo farei mai. Io sono dell’idea di Salmo che fare il giudice ad X-Factor serve più ai giudici che ai concorrenti. Credo che il talent sia la morte della musica. Non mi piacciono le marchette, non metterei la mia faccia lì per vendere i miei dischi. Preferisco vendere i miei dischi sulla base del mio talento e non sicuramente perché sono nel posto giusto, al momento giusto, con gli amici giusti e il trucco giusto.

E quindi ad oggi se un ragazzo di talento vuole fare questo mestiere, gli consiglieresti la gavetta vecchio stile?

Assolutamente sì! Perché ti insegna qualcosa e quando ti troverai nelle situazioni saprai come alzare l’asticella consapevolmente. La gavetta serve e chi fa gavetta si differenza dagli altri. Se tu vedi, gli indipendenti che ce l’hanno fatta davvero – i vari Coez, Salmo, la stessa Levante, Lo Stato Sociale, Calcutta, i Thegiornalisti – la gavetta ne han fatta tanta e la differenza si vede. Chi esce da un talent dura un anno al massimo.

Con “Ottima scusa” parli di un amore finito e delle aspettative che molto spesso riponiamo in questo sentimento. Cosa vorrebbe Willie Peyote dall’amore?

Vorrei comprensione da ambo i lati mentre spesso ci si ferma a cercare di essere capiti ma si prova poco a cercare di capire l’altro. Si è poco disposti a cambiare i propri modi di fare per andare incontro all’altra persona. È questo che mi son sempre trovato ad affrontare ed è il motivo per cui le storie finiscono fondamentalmente. Ad un certo punto si smette di essere disponibili alla comprensione dell’altro. Quindi, cosa vorrei dall’amore? Vorrei comprensione mia nei suoi confronti e sua nei miei confronti.

Tante collaborazioni in questo nuovo progetto discografico. Come è nato il featuring con Roy Paci per il brano “Vendesi”?

È nato in maniera del tutto naturale. Io e Roy ci siamo conosciuti per caso. Mi ha scritto lui per primo facendomi i complimenti ed io ovviamente mi sono sciolto perché è un musicista di cui ho molta stima e casualmente, tra una cosa e l’altra, sono andato a registrare nel suo studio il disco perché c’era piaciuto molto il disco Jolly Mare e di Daniele Silvestri che sono stati fatti lì e quindi abbiamo deciso di andare lì. Una volta che eravamo lì, la collaborazione è venuta fuori in automatico anche perché Roy se può suonare non si tira mai indietro. È un musicista di vecchio stampo: se può suona.

All’interno troviamo anche uno skit di Giorgio Montanini dal titolo “7 miliardi”. Perché questa scelta e come vi siete conosciuti?

Con lui è andata al contrario. Sono stato io a scrivere a Giorgio perché è uno degli artisti di cui ho più stima nel panorama nazionale e l’unico da cui mi sento davvero rappresentato a livello di tematiche trattate. Quindi gli ho scritto dicendogli esattamente questo. Lui ha ascoltato qualche pezzo. Ha scoperto che gli piaceva quello che facevo io e ci siamo conosciuti. Gli ho chiesto di scrivere qualcosa per il mio disco e lui mi ha detto che, in realtà, stava lavorando ad uno spettacolo nuovo e che trattava lo stesso argomento. Quindi mi ha invitato alla prima assoluta del suo spettacolo e mi ha detto: “Registra tutto quello che vuoi e usa quello che vuoi, tanto tutto lo spettacolo è a disposizione”. Tra l’altro ho potuto utilizzare degli stralci inediti perché Montanini inizierà a portare ufficialmente in giro lo spettacolo dal 18 novembre. Quel che si sente nel disco è un inedito del suo nuovo spettacolo.

Se avessi la lampada di Aladino e la possibilità di esaudire 3 desideri cosa chiederesti al genio?

Guarda fossi Miss Italia risponderei la pace nel mondo. In realtà potrei dirti: il Toro che vince lo scudetto e la Champions, trovare il trucco per fare la mia musica nel migliore modo possibile cioè arrivare alla perfezione nell’ambito musicale e poi vorrei che tutti ci prendessimo un po’ meno sul serio che è un buon inizio per arrivare alla pace nel mondo. Se tutti ci prendessimo un po’ meno sul serio e ci guardassimo attorno con meno supponenza cercando di capire un po’ più gli altri, probabilmente ci sarebbero molti meno problemi.

Dopo “sindrome di Toret”, cosa c’è in programma?

Adesso dobbiamo suonare tanto. Talmente vanno bene i concerti che in tutti i locali in cui siamo andati vogliono già un’altra data quindi non so quanto durerà questo tour. Stiamo lavorando a degli altri pezzi. Non riusciamo a stare fermi mai quindi stiamo già pensando a pezzi nuovi, versioni del disco. E poi cerco di trovare nuovi stimoli quindi mi metterò a studiare qualcosa di nuovo. Adesso mi sto avvicinando allo stand up comedy e continuerò a studiare quella e magari aggiungere ancora ulteriori aspetti dello stand up comedy nella mia musica però posso garantirti che sicuro non sarà l’ultimo disco che faccio.

Sandy Sciuto