Intervista a The Leading Guy: l’artista pop folk che il mondo ci invidia ma l’Italia non lo sa

C’è voluta la partecipazione a “Faber Nostrum”, disco omaggio a Fabrizio De Andrè, per accorgersi di The Leading Guy in Italia.

In realtà, il cantante italiano dal nome d’arte straniero è già apprezzatissimo da colleghi italiani ed internazionali a tal punto che ha di recente aperto tutti i concerti dell’ultimo tour di Elisa.

Negli ultimi cinque anni si è fatto conoscere in giro per il mondo per il suo stile pop folk. Ha pubblicato prima “Memorandum” e nel 2019 “Twelve letters”.

Incuriositi dalla sua musica e dal suo talento, lo abbiamo intervistato e tra una chiacchiera e l’altra ci ha raccontato chi è The Leading Guy.

Partiamo dall’inizio. Quando nasce il tuo rapporto con la musica e la voglia di far diventare una passione il tuo lavoro?

La voglia di scrivere canzoni è nata quando abitavo in Irlanda. Ricordo perfettamente l’istante in cui l’ho capito. In Irlanda son entrato in un pub e c’era un ragazzo in un angolo che stava facendo una cover di Billy Joel. Io guardando lui e le persone che lo ascoltavano e sentendo dentro qualcosa, mi sono detto che io dovevo far provare alla gente quel che sta provando. Da lì mi sono messo a scrivere canzoni orribili dapprima. Nel corso del tempo mi sono migliorato. Tre/quattro anni fa ho deciso di far diventare questa passione un lavoro anche perché ero sempre via per la musica, ero sempre preso. Ho dovuto scegliere tra volere un lavoro vero o inseguire la musica e tentare il tutto e per tutto. Oggi mi trovo qui.

All’anagrafe sei Simone Zampieri, ma hai deciso di essere The leading Guy e di cantare in inglese. Come mai questo nome? Cosa c’è di diverso tra cantare in inglese e in italiano?

Il nome deriva da una canzone di Micha P. Hinson che nel periodo in cui pensavo ad un acronimo per il progetto ascoltavo a ripetizione. È stata una scelta naturale. Il cantare in inglese e in italiano sono due mondi diversi. Sono italiano, penso in italiano quando vivo però io sono nato artisticamente in Irlanda e quando prendo la chitarra in mano, l’italiano sparisce e penso in inglese. È uno switch mentale enorme: cioè per scrivere canzoni io penso in inglese non è che poi le traduco dall’italiano. In Italia si dà molto più spazio alla melodia, al testo. Con lo stile inglese riesci a dare più spazio alla musica.

A tre anni di distanza da “Memorandum” è arrivato il 3 maggio “Twelve letters”, il tuo secondo album. Ci racconti da dove sei partito per scriverlo, a chi o a cosa ti sei ispirato e qual è il messaggio?

“Memorandum” è stato un disco molto egoista. Ho fatto molta auto-analisi in un periodo della mia vita ed ho parlato di me per provare a spiegarmi meglio. Per “Twelve letters” sono andato nella direzione opposta. Le canzoni presenti nel disco sono tutte rivolte all’esterno. Legate non a persone nello specifico, però ad una necessità di comunicare verso l’esterno e di fare gruppo. Mi sono accorto solo scrivendole che erano dodici canzoni con un messaggio: cercare di rallentare nella comunicazione e cercare di pesare un po’ più le parole. È una buona metafora perché quando scrivi una lettera: pensi, rileggi, correggi e spedisci. Chi riceve la lettera deve aspettare, aprirla con cura, deve leggerla e capirne il significato. Secondo me le canzoni devono essere scritte dai musicisti con quell’intento lì e chi le ascolta, deve carpirne il senso.

Cosa pensi dell’attuale modo di comunicare? Qual è il valore aggiunto di una lettera e secondo te perché facciamo fatica a scriverne ancora?

Il mio non è un disco nostalgico. Sono contento di avere questi mezzi di comunicazione che rendono maggiormente fruibile la musica. Secondo me, dobbiamo capire che i mezzi di comunicazione sono per comunicare quindi ci vuole attenzione in cosa e come si dice. Penso ai commenti dei social in cui la gente non pesa le parole e non considera che ci sono delle conseguenze. Ti dico una curiosità: quando ho avuto i dischi, ho mandato il disco ad alcuni amici artisti a cui voglio bene ed ho allegato una lettera scritta a mano. Ci ho messo due giorni per scrivere quindici lettere che sapevo avrebbero scartato. Ciò ha richiesto dovermi interrogare su cosa provavo per ognuno e come dovevo ringraziarlo. È un gesto che ha una pesantezza. Non è un messaggio su Whatsapp.

Dodici lettere ossia dodici canzoni: ci puoi raccontare degli aneddoti legate a questi brani?

C’è un aneddoto carino legato a “Times”. Non era nel disco. Mentre registravamo i fiati – a disco ben avviato, quindi – avevo la chitarra in mano e ho fatto questo giro di “Times”. Da lì l’ho rifinita lo stesso giorno ed è entrata nel disco. Altri aneddoti particolari non ce ne sono. Pensa che sono arrivato con le canzoni scritte solo chitarra e voce. Per ogni canzone abbiamo scelto al momento della registrazione che cosa fare per renderla una buona canzone. Se senti la varietà del disco è perché abbiamo cercato di cucire un vestito diverso per ogni brano, lavorando alla giornata.

Per “Faber Nostrum” hai inciso “Se ti tagliassero a pezzetti”, prima volta che canti in italiano. Perché tra tutte questa canzone? Cosa significa per te esser considerato uno dei cantanti italiani della nuova leva e aver potuto omaggiare De Andrè ?

Omaggiare De Andrè è stata una cosa che col senno di poi mi è piaciuta molto fare e ne sono orgoglioso. Non ti nascondo che quando me l’hanno proposto, volevo rifiutare perché avevo paura di cantare in italiano perché non l’avevo mai fatto. Poi mi sono detto che il bello di questo mestiere è imparare ad avere coraggio, quindi, ci ho lavorato duramente su quella canzone. La cosa bella di questo progetto è che eravamo liberissimi, organizzandoci tra noi, di scegliere il brano. Per me è stata una ricerca difficile: ho tentato a far dieci brani. Ho scelto questa canzone perché “rotola” ossia si avvicina melodicamente allo stile inglese e quando la cantavo sentivo vicina la mia voce. Secondo me De Andrè deve essere cantato dai giovani per i giovani.

Sei stato scelto personalmente da Elisa per aprire i suoi concerti nei teatri. Ci puoi raccontare come è stato il primo incontro e com’è anticipare l’esibizione di Elisa e cantare  per un pubblico che ti scopre quella sera?

Noi ci siamo conosciuti perchè io ho fatto il giudice in un concorso per giovani cantanti insieme al marito, suo chitarrista da sempre. A lui ho fatto sentire “Black”, gli è piaciuta da morire e mi ha contattato anche per altre cose. Coincidenza vuole che avevano il tour in partenza ed Elisa mi ha scelto per l’opening dei suoi concerti. Il pubblico di Elisa è molto molto sano. È gente perbene. Aprire i concerti con Elisa è fantastico perché hai un pubblico che è dalla tua parte. È veramente una bella esperienza.

Sembra che manchi solo la consacrazione al tuo percorso musicale. In vista del successo, cosa c’è nell’agenda di The leading guy per i prossimi mesi?

A luglio suonerò all’estero. Ad ottobre comincerò un tour a band completa. Partirà il 9 ottobre da Roma per toccare città come Bologna, Bari, Milano, Firenze e Torino.

Sandy Sciuto