Classe 1956, milanese e autodidatta fuoriclasse: l’eclettico artista Maurizio Gabbana, fratello dello stilista Stefano Gabbana, è un appassionato fotografo che gira l’Italia e il mondo munito di macchina fotografica e della sua straordinaria sensibilità artistica attraverso cui ritrarre ciò che lo circonda.
Tutto intorno a lui cambia prospettiva e si presenta in tutta la sua anima multiforme: Maurizio Gabbana si ferma non a guardare ma ad osservare, aspettando il momento giusto per scattare. La sua lente d’ingrandimento sul mondo è uno psichedelico caleidoscopio di immagini fluide, che mutano incessantemente sotto gli occhi dell’osservatore.
Ogni fotografia è un pertugio dove infilarsi e trovarvi un mondo.
Ogni scatto è un armadio che porta alla Narnia dell’artista: tutti sono invitati, basta saper osservare con la mente e non con l’occhio.
Milano, Venezia, Firenze, Roma, Torino, Bari; ma anche Parigi, Londra, New York, Dubai, San Pietroburgo, Mosca e Barcellona. Maurizio collabora con diversi artisti e con personaggi di spicco, come lo storico dell’arte dell’accademia di Brera Rolando Bellini, Daniele Radini Tedeschi – commissario della biennale di Venezia 2015 e della Triennale di Roma 2014 – con Roberto Borghi – giornalista, critico, scrittore e studioso dell’arte – con Pio Meledandri, direttore del museo della fotografia del Politecnico di Bari, Andrea Dusio, Roberto Mutti, Gian Ruggero Manzoni e molti altri.
Ha realizzato mostre in gallerie di tutta Italia come Palazzo Reale di Milano, Triennale Milano, Biennale di Venezia, Fiera d’arte contemporanea di Basel, Triennale di Arti Visive a Roma e il Museo E. Fico di Torino. Dal 2013 una sua opera di grandi dimensioni accoglie i visitatori della sede PWC del Sole24ore di Milano.
Una passione coltivata fin dalla tenera età che, per le imperscrutabili vie che la vita ci pone davanti, è diventata un lavoro a tempo pieno in un ambiente dove sentirsi stimato e riconosciuto come pioniere della fotografia contemporanea.
Scopriamo insieme Maurizio Gabbana.
In più di un’occasione, ha raccontato di come il suo rapporto con la macchina fotografica sia legato a dei ricordi d’infanzia. Com’è nata la sua passione per la fotografia?
Da bambino mio padre mise tra i miei giocattoli una macchina fotografica. Era una macchina fotografica con rullino, di piccole dimensioni, quasi una macchina fotografica giocattolo. Crescendo, la passione per l’arte e per la fotografia mi hanno sempre accompagnato finché ho avuto la fortuna di tramutare questo hobby, questa passione, in lavoro. La mia ispirazione è stata alimentata negli anni dallo studio dei grandi maestri pittorici: fin dalla tenera età, sfogliavo cataloghi e volumi con questi meravigliosi dipinti e ne ero stregato. Poi capii che il mio mezzo, il mio occhio, poteva essere il mirino della mia macchina fotografica: attraverso l’obiettivo io decido cosa inquadrare e cosa far rientrare all’interno della scena che voglio immortalare, come fanno i pittori fanno con la scena che vogliono dipingere. Per me è diventato un mezzo per esprimere un pensiero perché con i miei scatti io mi identifico: le mie foto sono una finestra nel mio mondo.
Che cos’è per te la fotografia?
La fotografia è attesa: attesa del momento, della luce, del passante che entra od esce dalla scena. Perché in realtà la mia non è una ricerca di perfezione ma di una bellezza tangibile, vicina a noi. E’ una apparente solitudine perché è un momento del tutto personale ma in relazione con ciò che ci circonda.
A proposito di attesa e solitudine, parliamo della tua ultima mostra. ”Dynamiche infinite”, esposta recentemente in Triennale a Milano e ”in tour” dal 2018. Com’è stato rappresentare la tua Milano completamente vuota?
In realtà, queste foto non sono state scattate durante il lockdown. La mia è una raccolta di fotografie nelle città che ho visitato e anche di Milano mentre ricercavo proprio quella solitudine di cui parlavo poc’anzi.
Le immagini della città vuota sono frutto dell’attesa del momento di vuoto – una solitudine apparente, appunto – ed è un lavoro che ho sempre fatto anche durante i miei viaggi, sopratutto sfruttando le ora notturne. Ho tenuto nel mio archivio moltissime foto: ho l’abitudine di scattare e archiviare, aspettando il momento giusto per renderle pubbliche. Per questo ogni volta che Dynamiche Infinite espone da qualche parte, mostra sempre scatti differenti. Per Triennale Milano, a cura di Andrea Dusio, ho aderito ad un progetto particolare che si rifà a ‘‘I sette messaggeri”, la raccolta di racconti di Dino Buzzati. Il racconto che da il titolo alla raccolta narra le gesta del figlio del Re e dei suoi sette messaggeri, in viaggio con lui per fare da la spola tra lui e la capitale e dare notizie di sé ai suoi cari.
A causa della distanza sempre maggiore, i messaggeri impiegano sempre più tempo per raggiungere la città e tornare con lettere e notizie, tanto da diventare datate una volta raggiunto il principe. Il confine del regno è sempre più lontano da raggiungere e sempre più distante da casa. Così decide di mandare l’ultimo messaggero verso casa e gli altri davanti a sé, così da conoscere in anticipo ciò che gli si prospetterà davanti piuttosto che ricevere notizie da casa, un luogo ormai estraneo a lui. La vita del principe diventò sempre più un’infinita e solitaria attesa.
Il mio messaggio attraverso le mie fotografie è quella di far capire all’Uomo che non è solo: noi viviamo in città costruite da altri uomini, proprio come noi. Gli oggetti che usiamo, la casa in cui viviamo, le strade in cui camminiamo sono nate dall’ingegno dell’uomo. E’ la nostra intelligenza e la nostra perseveranza a creare il mondo in cui viviamo e non dobbiamo dimenticarcene: noi siamo in grado di fare grandi cose e basta guardarsi intorno per non sentirsi soli. Probabilmente questa fiducia nell’umanità è dettata anche dalla mia forte fede religiosa ed è per questo che io non mi sento mai solo.
Un messaggio importante in un momento storico come quello che stiamo vivendo, dove l’Uomo si è necessariamente dovuto mettere in discussione di fronte ad un virus letale che ci ha fatti sentire tutti inermi e disorientati. Come artista, questo periodo ha influito in qualche modo sul tuo operato?
E’ stato sicuramente un momento di introspezione, un momento per fare deserto intorno a me e riflettere.
Io non mi sono sentito indebolito da questo periodo ma anzi, ho sentito di essere più forte, grazie anche alla vicinanza della mia famiglia e dei miei affetti. Certo, anche il mio modo di lavorare ne ha risentito: mi manca viaggiare e scattare foto. Tuttavia, non mi sono fermato: ho scritto molto e ho lavorato ad un nuovo progetto che prenderà vita nel 2021. Semplicemente ho colto questo momento storico per sperimentare nuove forme d’arte, imparando ad ascoltare e a comunicare in modo diverso. Tutti noi abbiamo già i mezzi per fare arte e abbiamo bisogno sempre di metterci in gioco. Troppo spesso ci etichettiamo o ci facciamo etichettare per il saper fare bene solo una cosa: io voglio sentirmi libero di creare e sperimentare senza autodefinirmi. L’uomo è per sua natura eclettico e trovo che questo periodo sia stato il momento giusto per rimetterci tutti in gioco.
La tua fotografia ha avuto anche un fine di tipo ”sociale”: l’anno scorso hai presentato una mostra intitolata ”You make me feel like?!”, dedicato alla sensibilizzazione contro la violenza sulle donne. Com’è nato questo progetto?
In realtà io ho voluto rappresentare la violenza sia di coppia, sia verbale sia fisica, tra uomo e donna in ambito domestico: non sono immagine esplicitamente violente ma che fanno intuire uno stato di malessere e di violenza. Non ho scelto modelli o modelle, sono amici e conoscenti che ho ritratto nel loro ambiente domestico: un disequilibrio malato che si ripercuote in uno status di violenza che non risparmia nessun membro del nucleo familiare.
Una mossa che va oltre al concetto di femminicidio ma che tenta di indagare la violenza domestica a 360 gradi.
In attesa dei prossimi progetti in cantiere per il 2021, puoi conoscere Maurizio Gabbana consultando il sito http://www.gabbanamaurizio.it/
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