Intervista a Mario Amura, che racconta il dentro attraverso il fuori

Fotografo e poi direttore della fotografia di film d’autore non solo italiani, Mario Amura racconta la sua vita, che è anche la sua arte, a Social up. È sembrata una lezione universitaria la nostra chiacchierata, ma di quelle necessarie e che fanno bene all’anima, di quelle per le quali l’ascolto si presta ben volentieri, senza noie.

Due forme d’arte si uniscono nella tua professione di direttore della fotografia, ovvero fotografia e cinema. Come inizia la passione per l’una e l’altra?

C’era una casa a Conca dei Marini (SA) di un artista, Enotrio Pugliese, che era gestita da un Umberto, un pescatore che alla morte di Enotrio divenne custode di quest’immobile. Siccome i nuovi acquirenti non erano interessati alla biblioteca di questo pittore, Umbert0 mi invitò a fare una cernita di libri tra quelli disponibili per poterli destinare ad una più utile funzione, senza che fossero lasciati lì a marcire.

Tra questi volumi c’era una delle prime edizioni di un libro del maestro della fotografia Henri Cartier-Bresson. Sfogliare quell’opera è stata per me la vera illuminazione sulla strada di Damasco, la comprensione di quanto potesse essere potente uno scatto, quanto potesse essere evocativa una singola immagine.

Il cinema, la letteratura e la poesia già le amavo come espressioni artistiche, ma da allora avrebbero trovato una nuova potenzialità in quest’arte fotografica che non conoscevo per niente.

Un fotografo di matrimoni mi ha accompagnato poi nelle prime esperienze in camera oscura. Avrò avuto 18 o 19 anni. E da lì è partita la mia formazione.

Come definiresti la fotografia?

Il bello della fotografia rispetto ad altre forme espressive è che ti permette di raccontare qualcosa che hai dentro attraverso qualcosa che sta avvenendo fuori di te.

E al cinema come mai hai deciso di voler approdare?

Secondo il mio modesto punto di vista un maestro come Bresson era riuscito a perfezionare la propria “tecnica visiva” lavorando  su set cinematografici (è stato assistente di Jean Renoir), per cui decisi che se avessi voluto davvero confrontarmi con la forma espressiva fotografica avrei dovuto formarmi attraverso il cinema.

Fui ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma e al terzo anno accompagnai nel mio percorso di studente anche un’operazione di assistentato al maestro Rotunno, purtroppo recentemente scomparso e tra i migliori direttori della fotografia, lavorando anche con Fellini e Visconti.

All’inizio ero convinto che sarei ritornato alla fotografia, ma accadde che il saggio di fine anno vinse il David di Donatello. Era il 2000.

A quel punto la mia curiosità per il cinema è cresciuta e ho continuato, accompagnando registi che all’epoca erano difatti quasi alle prime armi. Oggi sono tra quelli più in auge della nostra cinematografia: Luca Guadagnino, Paolo Sorrentino, Saverio Costanzo, Sabina Guzzanti, Vincenzo Marra, Luca Miniero, Paolo Genovese.

Come definiresti il cinema?

Citando Pasolini: “Il cinema è un infinito piano sequenza, poiché infinita è la realtà che riproduce.”

 

Invece l’esperienza di direttore della fotografia cosa ha rappresentato per te?

È un’esperienza molto affascinante, che mi ha insegnato la relatività del punto di vista su una determinata storia e mi ha offerto l’opportunità rara di guardare il mondo attraverso gli occhi di altri, dei registi.

Ci sono film per cui hai lavorato e a cui sei più affezionato?

Una delle opere più potenti in cui ho preso parte come direttore della fotografia è “Vento di terra”, un lungometraggio diretto da Vincenzo Marra. Girato a Scampia molto prima di “Gomorra” di Garrone, “Vento di terra” è un film che ha l’ambizione di avere, anche sul piano della fotografia, una crudezza non sensazionalistica, non incitante al “pathos”, alla drammatizzazione degli eventi.

Come te lo spieghi che “Vento di terra” non ha avuto lo stesso successo di “Gomorra” pur trattando una tematica affine?

“Gomorra” entra a buon diritto nella storia del cinema, e c’è poco da dire a riguardo. “Vento di terra” vinse un premio come opera innovativa a Venezia e mi auguro che un giorno venga riscoperto.

C’è un altro film a cui sei legato?

Ho amato “Draquila-L’Italia che trema”, un documentario diretto da Sabina Guzzanti ed andato in selezione ufficiale a Cannes. Un film che parte dal terremoto dell’Aquila del 2009 per raccontare l’Italia durante l’epoca berlusconiana delle politiche dell’emergenza e dei Grandi Eventi gestiti dalla Protezione Civile che era diventata una sorta di “parastato” operante al di sopra della legge.

Che tipo è Paolo Sorrentino?

L’ho conosciuto quando ancora non aveva raggiunto l’attuale notorietà, ma posso dire che aveva già una profonda consapevolezza di quello che sarebbe potuto essere il suo percorso.

Tra gli attori chi hai incontrato sul set?

Ho conosciuto Favino, Mastandrea, Germano, Siani. Ricordo che Favino anche fuori dal set era anche un intrattenitore straordinario. È un innamorato della vecchia scuola attoriale italiana, quella di Gassman, Mastroianni, Tognazzi. Elio Germano è un altro attore straordinario, mai banale nella ricerca della corretta prestazione attoriale.

Siani è un comico che nella fase nella quale l’ho conosciuto stava cercando di costruire per se stesso una sorta di nuovo Troisi.

I bisogni di Troisi, però, non corrispondevano ai suoi. Siani è un innamorato della napoletanità, Troisi aveva una dimensione universale e più poetica. Poi dopo Siani ha studiato meglio quel che ha fatto, era smarrita quest’ambizione di emulazione o di seguito di orme troisiane, e sicuramente ha fatto meglio.

Quando è nata la macchina fotografia digitale quali sono stati gli sviluppi nella tua carriera?

Nel 2007-2008, ovvero quando nasce la macchina fotografica digitale comincio a fare esperimenti di fotografia in sequenza. A quel punto decido di abbandonare il cinema e di dedicarmi nel 2012-2013 a realizzare un prototipo di una tecnologia che chiamo “stopemotion”, una sorta di omaggio alle origini del cinema, al famoso stop motion, e alle fotografie di Bridge, di quelle del cavallo ad esempio.

Ho cominciato così a viaggiare nel mondo e a scattare in digitale adoperando questa tecnica. È materiale raccolto da me nel tempo ma ancora inedito. Da progetto artistico è diventato il mio un progetto imprenditoriale. Ho creato un’app (Phlay) con la quale ho permesso alle persone di realizzare video con questa logica. E migliaia di ministories son state realizzate in tal modo. Ad oggi mi dedico a quest’attività ed accompagno il mio percorso creativo e personale alle sperimentazioni, a tutto ciò che ha a che fare con uno storytelling interattivo.

Amura
DVD.it

Molto bella la tua attuale attività, unisce l’origine del cinema ad un nuovo ancora in fase di sviluppo e d’avanzamento. Mario ti auguro il meglio su una strada già segnata da cose molto belle. Grazie per l’interessante chiacchierata anche istruttiva!

 

Grazie a te di tutto Christian!

Le foto sono state gentilmente concesse da Mario stesso. Ci auguriamo di vederlo presto nella direzione di un bel film.

Christian Liguori