In Corea del Sud la diffusione del coronavirus è favorita da un culto religioso

Da quanto la parola “Coronavirus” è entrata nel nostro vocabolario, ad essa si sono associate emozioni diverse: prima diffidenza, poi paura. La psicosi impazza nelle città e la gente fa incetta di beni di prima necessità (e non) per prepararsi a un’epidemia che non sembra avere alcun fondamento al momento.

In Corea del Sud la psicosi ha raggiunto livelli inimmaginabili, al punto tale che una congregazione (o meglio una setta) con più di 200.000 seguaci ha iniziato a diffondere il coronavirus (SARS-CoV-2) tra i suoi adepti. Secondo quanto riportano i media coreani si pensa che la metà dei casi coreani siano legati al culto di questa setta (basti pensare che la Corea del Sud è il secondo stato per contagi dopo la Cina).  Il focolaio della Corea del Sud è quindi in uno stato di allerta massima, dovuto soprattutto alla portata di questo culto che sta raccogliendo sempre più adepti e le autorità di sicurezza non conoscono bene quali siano le pratiche interne alla setta, essendo questa particolarmente riservata e non fornendo informazioni sul potenziale “rito” che prevede il contagio dei nuovi adepti.
Solo di recente il culto, messo alle strette dalle autorità di sicurezza, ha acconsentito per fornire le generalità di quanti si siano prestati al rito e nello specifico i nomi di quanti fanno parte della setta. Le autorità sono però scettiche circa il fatto che i dati forniti siano reali e soprattutto non è chiaro ancora quando la lista sarà effettivamente fornita.

In una inchiesta del NY Times è stato reso noto che la prima seguace del culto ad aver contratto la malattia è una donna di 61 anni che il 18 febbraio è risultata positiva al test.  La donna aveva partecipato a due incontri della setta a Daegu dove oltre lei erano presenti circa mille altri seguaci del culto che provenivano da diverse parti della Corea e che come la donna si sono prestate ai riti della congregazione.

Secondo altre dichiarazioni fornite dai media coreani sembrerebbe che i seguaci del culto reputino il virus come un impedimento nel professare la loro fede al meglio e questo li spinge a nascondere i sintomi del coronavirus al punto di autoconvincersi di non essere malati cercando di continuare la loro vita con indifferenza, anche nonostante i sintomi.
A causa della notevole attenzione che media e autorità hanno nei confronti del culto, il leader della congregazione Lee Man-hee (autoproclamatosi messia) ha risposto attraverso una lettera pubblicata online dicendo di aver «cooperato attivamente con il governo per prevenire la diffusione del virus» e per concludere ha anche accusato il diavolo di aver contribuito nella diffusione del nuovo coronavirus.

Andrea Calabrò