Il Signor Diavolo: un horror che non potrete perdere

L’horror gotico vive di influenze. Così non fosse, il gotico sarebbe rimasto quello che era al momento della sua nascita, nella seconda metà del ‘700.
Quando si parla di horror gotico si fa riferimento al male. Il male è un ingrediente imprescindibile che qui da noi, in Italia, ha sempre avuto forti implicazioni religiose, ma non solo. Perché il cattolicesimo, nel nostro paese, è stato assunto come elemento culturalmente fondante, ma guardando bene nel passato non è semplicemente così. Le cose non sono mai così semplici. La grandezza del cattolicesimo è stata quella di far convergere tutte le forze di un sottobosco culturale primitivo e frammentato che ha vissuto, vive e vivrà sempre di folklore, credenze, superstizioni. Le più importanti festività cristiane sono un riadattamento di riti pagani, ad esempio. Riti di cui non ci siamo riusciti a liberare fino in fondo e che in determinati contesti sono più vivi che mai. Anche il tanto odiato Halloween ha radici in quella che ora definiamo cultura cristiano-cattolica.
Se parliamo di gotico padano, le possibilità in tal senso si ampliano a dismisura, pur rimanendo gli elementi cardini sempre gli stessi. Pupi Avati questo lo sa bene. Lui con l’horror gotico padano ha costruito una parte della propria carriera e La Casa dalle Finestre che Ridono rimarrà sempre un pezzo di storia. E non veniteci a parlare delle influenze argentiane. Il cinema di Avati è identitario. E Il Signor Diavolo (il suo ultimo film, tratto da un suo romanzo) fa parte di questa visione identitaria della filmografia del nostro.
1952: un investigatore del Ministero degli Interni viene inviato nella provincia di Venezia per indagare su un caso d’omicidio: il quattordicenne Carlo ha ucciso un altro ragazzo convinto che questo fosse il diavolo. 

Religione, politica, superstizione. I segreti di una cominutà, celati dall’apparenza e dal mantenimento della stessa, nascosti sotto il tappeto come il diavolo nelle catacome di una chiesetta di provincia. Il rurale con i suoi alberi, l’erba bruciata dal sole, le costruzioni spoglie, povere. Le mostruosità del corpo umano immortalate nei primi piani per poi aprirsi in campi lunghi ma sempre delimitati dall’architettura, soffocati dall’oscurità della nebbia e di un cielo che ha perduto la propria radiosità, la propria pastellosità a favore del grigio e del bianco. Soffocante in un color seppia o nella luce naturale della notte. Tutto è bruciato, come l’infanzia dei protagonisti di questa vicenda: Carlo, Paolino ed Emilio.
Una realtà fatta di refettorio, fionde e biciclette. Di omicidi. Di maiali e bocche sfigurate. La perdita dell’innocenza non avviene più guardando una donna nuda in cambio di un coniglio o una gallina. Non esiste l’innocenza. Non più.
Furio deve indagare su un omicidio scomodo, poichè non solo perpetuato da un minorenne ai danni di un altro minorenne, ma perché la chiesa sembrerebbe essere coinvolta, con la sue eredità di folklore e di mito piuttosto che di religione. Una chiesa che non è più del popolo, ma che fa politica. La chiesa del potere.
Potremmo definire il film diviso in due parti: la prima con un lungo flashback, la seconda con l’indagine vera e propria. Fatto sta che il punto di vista non è mai oggettivo, bensì frastagiato, soggettivo, frammentato. Il racconto che attraverso l’oralità si fa carne e diventa vero, passando di bocca in bocca. La voce di un popolo nell’oscurità a cui la ragione deve trovare una luce. Se non fosse che la verità non esiste e che il diavolo, il male, è sotto i sassi e tra le fronde, indossa le maschere che vuole tra cui quella dell’omertà. Il male è inganno e il diavolo un ingannatore. La verità viene sepolta. Non sarà mai libera di affermare la propria esistenza.
Il Signor Diavolo è un film che sembra venire dal passato. Che attraverso il passato racconta il presente. Non sono forse alcuni luoghi fermi nel tempo? Ecco, così è per questo film. Ce lo vuole dimostrare la fotografia, ce lo vogliono dimostrare gli effetti speciali artigianali di Stivaletti. Quindi, in un contesto filmico del genere stonano gli effetti speciali digitali, bruttini e da soap televisiva, che appaiono ridicoli. Come ridicola mi è parsa la scelta di rallenty fuori tempo massimo, quando per sostenere e delineare il ritmo bastava il bel montaggio di Ivan Zuccon. Inoltre mi è parso fin troppo trattenuto, questo film. Troppo costretto in se stesso da un punto di vista più materiale che intellettuale. Il Signor Diavolo parla di carne, quella dietro cui si nasconde l’identità culturale tanto dei personaggi quanto di una comunità, ma non ci viene mai mostrato il disfacimento da cui viene corrotta. Sgraziata, sporca, lurida ma mai brutale come avrebbe dovuto. Senza impeto nelle scene dove ci sarebbe voluto. Forse. Perché poi funziona perfettamente dal punto di vista evocativo e da questo punto di vista non ha difetti di sorta.
Il Signor Diavolo è un film che racconta la nostra Italia. Un pezzetto della nostra Italia. Un film che denuncia, perché quel che era, è. Un horror gotico che cede al film d’inchiesta dalla grande potenza evocativa. Chi non lo capisce, non potrà mai entrare nel film.
redazione