Humphrey Bogart: umanità e disincanto dietro una maschera da duro

I venti di guerra che soffiavano in Europa, si spinsero nel Pacifico fino a Pearl Harbor e alla fine del 1941 gli Stati Uniti d’America entrarono nel conflitto mondiale. Una nuova esigenza come una scossa elettrica si diffuse nel paese e il cinema poliziesco prese atto di un nuovo e diverso clima: contrappose alla violenza degli anni trenta per la quale il gangster era una specie di eroe romantico, l’idea che fosse un inaccettabile figuro e degno rifiuto della società.

In quegli anni Humphrey Bogart, dopo gli esordi in ruoli di scavezzacollo strafottente e una solida gavetta teatrale, si era costruito la carriera nei gangster movie interpretando perlopiù siffatti e discutibili personaggi: pericoloso killer, carismatico capobanda, losco avvocato, ex galeotto, rapinatore spietato; abile spalla al fianco del meglio degli artisti del genere quali: il magnetico E.G.Robinson, il  grintoso James Cagney, il raffinato George Raft e il tenebroso Paul Muni. Dopo una costante partecipazione a una lunga serie di repliche teatrali de La foresta pietrificata, fu a forza inserito nel cast di tale film e nel 1936 fu notato dal grande pubblico per l’incisiva personificazione del feroce Duke Mantee. Rischiò seriamente di diventare uno stereotipo, ma raggiunse finalmente il successo da protagonista, con l’ennesima caratterizzazione del ruolo con sottili e più sfumati risvolti psicologici, col film del 1941: Una pallottola per Roy. Nello stesso anno saltò dall’altra parte della barricata e nel capolavoro del genere noir, Il mistero del falco, disegnò impeccabilmente la figura di Sam Spade, il disincantato investigatore privato creato dallo scrittore Mike Hammett.

Sia vestisse i panni del gangster abituale privo di ogni scrupolo nel perseguire i suoi sporchi interessi; sia se infilasse il trench chiaro di un detective privato che combatte solitario una guerra personale contro il crimine, mostrava il volto impenetrabile dell’uomo che non lasciava trasparire i suoi sentimenti: o perché non ne aveva o perché erano troppo forti. Su quella faccia così particolare trapuntata da tracce di barba incolta, disegnata da un amaro ghigno sottolineato da una cicatrice sul labbro, si calava un cappello floscio a larghe tese mentre alle dita era incollata l’immancabile sigaretta: arrochiva la sua voce che impastata con l’alcool usciva fuori gracidante. Così il personaggio avvolto in aureole di fumo si muoveva nell’atmosfera caliginosa della città tentacolare che mostrava tutto il grigiore nel contrasto tra il bianco dei ricchi palazzi dagli specchi dorati in cui abitava certa gente dabbene che contava e il nero delle misere costruzioni dove sopravviveva l’umanità povera.

Siccome un grande attore va di là dal ruolo Humphrey Bogart, non solo incise queste opposte e al contempo simili figure nell’immaginario collettivo, ma si dimostrò impareggiabile nello scolpire diverse tipologie umane altrettanto coinvolgenti. Eccolo protagonista nel 1942, di uno dei più celebrati film nella storia cinematografica: ”Casablanca”, dove nel Marocco francese nel pieno della seconda guerra mondiale, è Rick Blaine il cinico gestore del Café Américain. Una figura controversa dal discutibile passato che affida anche al suo smoking bianco la ritrovata rispettabilità, quasi a cancellare un torbido passato che riemerge però intatto con l’avvento della sua vecchia e indimenticata fiamma: la stupenda Ingrid Bergman. Il suo riscatto da uomo vero che accetta per amore un destino avverso, rende indelebile la vicenda e la sua immagine diviene ancor più mito.

Tra le ombre di cupe atmosfere notturne dalle quali emerge un uomo solitario e forte nelle sue debolezze, incarna le malinconiche fattezze di Philip Marlowe poliziotto privato nel film del 1946: Il grande sonno, tratto da un romanzo di Raymond Chandler. A partire da questo strepitoso successo colleziona così negli anni a seguire,  uno dopo l’altro, tutta una serie di riusciti personaggi dalle varie caratteristiche: Fred l’avido cercatore d’oro che diventa spietato e vigliacco in, Il tesoro della sierra madre; Dixon Steele, l’isterico sceneggiatore cinematografico che così perde l’amore di Gloria Grahame ne, Il diritto d’uccidere; lo scettico Charlie Allnut patriota suo malgrado grazie alla coinvolgente Katharine Hepburn ne, La regina d’Africa, film che nel 1951 gli valse un più che meritato Oscar; lo schizoide capitano Philip Francis Queeg alle prese con L’ammutinamento del Caine; Il fin troppo responsabile Larry Larrabee che soppianta in amore il finto smidollato fratello David (un irriverente William Holden)  e conquista il cuore di Sabrina (l’incantevole Audrey Hepburn) nell’omonimo film del 1954; il patologico delinquente Glenn Griffin a disagio con l’onesto  Frederich March di Ore disperate; e infine Eddie Willis, il giornalista che nel film Il colosso d’argilla, riscopre il suo cuore nobile di fronte al crudele interesse del boss Rod Steiger che vuole mandare al macello il malcapitato pugile di turno. In questa sua ultima interpretazione, il film risale al 1956, emerge in tutta la sua limpidezza, un modo di pensare che ci ricorda come una delle qualità migliori di Bogart consistesse in un’onestà sostanziale figlia di un codice etico personale imparato da un’esistenza difficile.

Eppure era nato da un’agiata famiglia di origine britannica, spagnola e olandese a New York nel 1899, suo padre era un noto chirurgo e la madre una disegnatrice pubblicitaria, ma siccome il destino di un uomo è il suo carattere, ben presto la sua vita privata risentì delle inquietudini e di certi atteggiamenti ribelli insofferenti alle regole del buona società. Dopo il diploma, espulso dal college per indisciplina, si arruolò volontario in marina dopo lo scoppio del primo conflitto mondiale. Rientrato nella vita civile, incominciò a lavorare dietro le quinte dei palcoscenici di Broadway. E da qui iniziò la sua avventura cinematografica mentre quella umana in parallelo fu contrassegnata da passioni assolute quali il mare, la bottiglia e le donne con relativi e tempestosi rapporti specie se affettivi che si placarono, dopo tre matrimoni al cianuro, solo con la quarta moglie Lauren Bacall, anch’essa attrice e donna sagace di non comune bellezza che nonostante fosse più giovane di ben venticinque anni, riuscì a stabilire con lui la giusta sintonia.

In definitiva Humphrey  Bogart è stato nel cinema quello che era nel privato e siccome odiava le ipocrisie e i luoghi comuni, i suoi personaggi lo seguivano portandosi addosso quell’incontenibile malinconia che nascondeva abilmente dietro una facciata da duro. La sua inconfondibile smorfia si spense nel 1957 e a commemorarlo fu John Houston, il grande regista e sceneggiatore col quale aveva girato memorabili films ma soprattutto suo grande amico: ognuno dei due invidiava qualcosa all’altro.

E tutti noi, oltre a quelli che amano il cinema, dovremmo essere invidiosi di un passato popolato da personaggi di così alto valore artistico e rispettiva grandezza morale.

Vincenzo Filippo Bumbica