Avevamo preparato per voi un’intervista con il candidato Nobel per la letteratura Hafez Haidar. Sembra quasi destino quello che è successo poco tempo fa all’Accademia Reale Svedese… Per questo oggi vogliamo presentarvi a chi sarebbe potuto andare il Nobel quest’anno, uno dei nomi che l’Accademia avrebbe potuto annoverare fra la rosa dei candidati.
Vogliamo iniziare così, con una frase dell’autore: “Amo molto i giovani e credo che bisogna aiutarli tanto. Penso che bisogna si indirizzarli, ma anche imparare da loro perché bisogna avere l’umiltà di imparare anche noi che riteniamo di essere – se posso dirlo – ‘saputelli’. Per apprendere, comunicare e far conoscere le cose giuste da quelle che sono brutte purtroppo tramite il dialogo ci vuole tanta umiltà, sempre questo è l’importante”. Docente di arabo all’università di Pavia, il poeta e romanziere Hafez Haidar oggi ha deciso di raccontarsi.
Qual è la sua formazione culturale?
Sono nato e cresciuto in Libano, nella città di Baalbek, “l’Olimpo degli dei”, da una famiglia benestante e numerosa. Avevo 10 fra fratelli e sorelle. Mio padre era proprietario di tante terre: era molto buono e lo persi purtroppo a 7 anni. Tutti i suoi averi andarono ai poveri. Ho cominciato un cammino difficile perché prima abbiamo gustato i frutti della ricchezza e dopo quelli della povertà. Ho proseguito i miei studi in Libano, ottenendo ottimi risultati. Dopodiché sono arrivato in Italia con un sogno: fare il medico. Ma dopo un anno sono dovuto tornare in Libano, nonostante gli ottimi risultati. E in Libano ho studiato filosofia per poi fare il concorso al corpo diplomatico e ho vinto la candidatura come segretario generale nell’ambasciata. Tornato in Italia, ho studiato lettere moderne alla statale dove ho conosciuto mia moglie. Poi ho proseguito gli studi, conseguendo il diploma di perfezionamento post-laurea e mi sono diplomato come paleografo, archivista e bibliotecario di stato.
Quando ho iniziato a lavorare all’ambasciata, ho iniziato a capire che ci sono molti frutti amari nel mondo, tante guerre. In Libano, ho trascorso una una vita infelice anche perché nel ’67 è scoppiata la guerra tra arabi e israeliani. Ero bambino, ma avevo già iniziato a capire che il mondo è rabbuiato dalla cattiveria di alcuni uomini che sono disposti a fare di tutto pur di arrivare in alto. Arrivando in Italia, ho cominciato ad aprire di più gli occhi: ho imparato la cultura italiana, ho frequentato teatri, giornalisti e anche i miei professori mi hanno insegnato a studiare la storia sui manoscritti, sui papiri, attraverso i reperti e così ho imparato a scrivere bene di storia. Quando mi sono sposato, ero giovane e non ricco. Io ho lasciato l’ambasciata e mia moglie ha iniziato ad insegnare e nel frattempo è nato il nostro primo figlio, Andrea. Durante la mia permanenza in Italia, ho mantenuto ben due famiglie all’estero. Pagavo tutto io. Facevo due lavori e mandavo soldi a coloro che avevano bisogno. Li ho mantenuti per 20 anni (“Non per un giorno o due, attenzione!”, precisa il professore, ndr). Quindi mi sono privato di tutto: della macchina, della vita mondana. Lavoravo, ma non per questo non ero felice.
Ma quello che ha cambiato il mio carattere è stato l’11 settembre. Da quel giorno funesto la mia vita è cambiata: ho capito che dovevo lavorare molto per la pace. C’è soprattutto bisogno di fare delle battaglie per vincere il regno del male per salvare le vite umane – soprattutto quelle indifese – difendere le donne, i diritti umani e di coloro che avevano bisogno.
In italia ho imparato tante cose frequentando artisti, poeti e giornalisti. Ho avuto la fortuna di entrare in Italia dalla porta più grande perché ho conosciuto Oriana Fallaci, con la quale ho litigato i primi tempi…
Mi ha rubato le parole di bocca! Volevo proprio chiederle qualcosa a riguardo della Fallaci. Lei ha tradotto in arabo le sue opere.
Più che aver tradotto la Fallaci, in realtà ho litigato… Mi aveva chiamato alle due del mattino a casa mia. Ai tempi, quando venni incaricato di tradurre alcuni libri, io non sapevo che quello che mi trovavo fra le mani fosse un libro della Fallaci! Semplicemente correggevo e traducevo ricollegandomi all’italiano, per non sbagliare il significato delle parole, ma non sapevo che questo fosse un suo libro! Allora, come dicevo, lei mi ha chiamato alle due del mattino e mi ha sgridato: “Come hai osato correggere il mio libro!?”. “Innanzi tutto: lei come si permette a darmi del ‘tu’? Io non la conosco. In italiano bisogna dare del ‘lei’ ad uno sconosciuto, è vero o no?”.
Lei è rimasta di sasso. Da lì poi è nato un discorso e le ho spiegato come aggiustare le parole, al che lei, remissiva, mi disse: “Professore posso disturbarla ogni tanto?”. E allora da lì si sono aperte le porte della Rizzoli. Ho pubblicato con loro 3 libri. Mi hanno considerato una specie di eroe che aveva sconfitto la Fallaci, che l’aveva messa KO. Era decisamente un comandate: pestava con i piedi certe persone.
Gira che ti rigira, sono arrivato a tradurre anche alcuni libri di Gibran e di Omar Khayyâm che è un grande persiano. Sempre con Rizzoli, ho fatto l’antologia della letteratura araba. Quando oramai il mio nome circolava – ero andato qualche volta sul Corriere della Sera -, iniziai ad essere conosciuto molto bene: man mano passo alla Mondadori e curo “Le mille e una notte” e divento molto famose anche grazie ad altri due libri di Gibran con Piemme nel 2001. Però, “Le mille e una notte” sono stati un coronamento, un lavoro durato 8 anni. Dopodiché, ho scritto un romanzo sulla vita di Gibran e da lì sono poi nati romanzi storici come “Il custode del Corano”.
Oggi vivo felicemente in Italia e sono Cavaliere della Repubblica grazie a Napolitano. Continuo a lavorare molto per i diritti umani e sono ambasciatore di 6 associazioni, dirigo la Camerata dei Poeti di firenze come direttore generale e sono presidente di diverse giurie letterarie. Sempre ho in mente di proseguire il cammino verso la luce, l’amore perché bisogna – e qui vi cito andando a memoria alcuni miei versi – “aiutare l’uomo a penetrare nei nostri cuori per accogliere i frutti del bene e abbracciare la luce della libertà e dell’amore. Aiutiamo l’uomo: la pace è il pane dell’esistenza e l’amore il cuore dell’universo. La pace è il sentiero dei giusti e degli assetati di giustizia, amore e libertà”.
Ha conseguito dei premi? Come è proseguita la sua carriera dopo e durante il successo editoriale de “Le mille e una notte”?
Ho preso molti premi: quello dai parlamentari arabi, dai ministeri della cultura e col tempo sono poi entrato nell’università e poi arriva Miriam, la mia seconda figlia. Da parte dell’ICEF (International Court of the Enviroment Fondation ndr) e da parte dei giuristi italiani sono stato candidato al Nobel per la pace nel 2017. Quest’anno ho avuto la candidatura da parte delle associazioni culturali più rinomate nel campo della letteratura. Ho fondato un premio giornalistico all’UNESCO del Libano nell’anno 2016 e nel 2017 prendo il premio giornalistico italiano in onore di Maria Grazia Cutuli, quella ragazza uccisa in Afghanistan col compagno traduttore. Sempre nel 2017 ne divento presidente onorario. Fra 15 giorni, un mese al massimo, dovrà uscire un nuovo libro e sta andando molto bene anche “Lezioni di Pace. Il Corano, l’Islam e il terrorismo spiegato ai miei allievi“.
C’è un messaggio che vuole dare alle persone?
Come ho detto, dal crollo delle torri gemelle la mia vita è cambiata e mi sono proposto di combattere il terrorismo sotto ogni forma e in ogni posto. Ho cominciato la mia campagna con “Gariwo la foresta dei Giusti” di Gabriel Nissim. Poi ho cominciato ad andare a tutte le conferenze sulla pace anche con le reti televisive arabe come Al Jazeera.
La parole d’ordine è “credere nell’amore e nella fratellanza dei popoli” perché odio genera odio, sangue chiama sangue e per raggiungere la pace bisogna combattere il terrorismo. Bisogna chiudere le fabbriche di armamenti. Ogni Stato è chiamato cortesemente a collaborare per rimediare a questo problema che ha offuscato la nostra vita, gettandoci nella paura. Dico questo: “Non abbiate paura” (come diceva papa Wojtyla). L’uomo che ha paura non può conoscere i frutti della vita, non può andare avanti e sperare di crear un mondo migliore per se stesso e per i propri figli. Abituiamo al dialogo e al dialogo in famiglia: far dialogare madre con figli, padre con figli. Perché quando troviamo la pace in famiglia possiamo raggiungere la pace in tutto lo Stato. E’ importante il ruolo della famiglia per creare la pace, per mettere le prime basi di un mondo migliore. Io conto molto sul dialogo nelle famiglie.
Qual è la sua opinione sul terrorismo? Come si spiega gli avvenimenti che da un po’ di anni a questa parte hanno scosso le nostre coscienze?
Il terrorismo è il morbo dell’esistenza. Nell’ultimo libro, ho scritto molte parole a riguardo. Ve ne riassumo il succo. Bisogna combattere contro il terrorismo e usare molto l’intelligenza e soprattutto non cadere nel panico e nella paura. Quando abbiamo paura, i terroristi vogliono questo: uno non va a vedere la partita di calcio, non si va a conoscere nuovi amici, non si va ai mercati perché la paura ha invaso la sua anima. Si può dire che il terrorismo è “l’arma letale di coloro che seminano l’odio, la violenza, l’atrocità, l’orrore nei cuori dei deboli e degli inermi… Abbracciamo i libri e le matite al posto della armi, gettiamo le armi e la paura nel pozzo del nulla” (cit. del professore, ndr).
Bisogna credere molto nella cultura perché è l’unico mezzo per combattere il terrorismo, questa infamia, questa nuova onda che sta oscurando il mondo. Per raggiungere la pace bisogna creare una collaborazione fra tutti gli Stati europei, scambiare informazioni e creare progetti innanzitutto per intervenire a restaurare la democrazia nei paesi arabi. Sono utili gli scambi culturali con il mondo arabo e i convegni per dialogare sui progetti che riguardano pace e cultura fra Occidente e Oriente.
A livello mondiale, bisognerebbe adottare queste strategie per combattere il terrorismo: chiudere le fabbriche di armamenti destinati ai terrosristi, catturare e punire severamente i trafficanti di armi e boicottare l’economia degli stati che forniscono denaro e armi in modo illecito ai terroristi e punire ogni individuo che fornisca vitto, alloggio o qualsiasi appoggio ai fanatici estremisti. Inoltre, bisogna spingere gli intellettuali a pianificare un piano culturale che privilegi istruzione delle donne e dei giovani dal punto di vista professionale e tradizionale. Bisogna poi cancellare analfabetismo e insegnare le lingue straniere perché sono molto importanti, adottare nuove politiche di sviluppo economico, migliorare i rapporti commerciali fra Oriente e Occidente, combattere la disoccupazione e creare nuove scuole, ospedali moderni e mezzi di trasporto pubblico in Medio Oriente, dialogale con l’Islam moderato. Denunciare alle autorità i nomi delle vecchie e nuove reclute dei terroristi, aiutare i figli dell’immigrati a integrarsi nella società, assimilando così la cultura del paese ospitante attraverso una politica di accoglienza non discriminatoria. Ritengo poi necessario indire convegni permanenti fra i rappresentanti delle tre religioni monoteistiche per combattere il terrorismo a livello internazionale, affidare agli uomini di fede il compito di insegnare i principi religiosi senza fini politici ed economici.
Questo è il mio piano per combattere il terrorismo che ho già consegnato al teatro Franco Parenti di Milano davanti a 1000 persone…
Secondo Lei, l’Italia è lontana da una posizione del genere?
Assolutamente no. E’ forse l’unico paese europeo che sta lavorando molto per aiutare il Medio Oriente. L’italiano non è affatto odiato all’estero, ma è amato in Medio Oriente perché l’Italia ha sempre offerto aiuti a tutte le parti senza interferire con la politica araba, instaurando rapporti di amicizia cordiali, politici e religiosi. L’Italia è un paese molto democratico sotto questo punto di vista. E’ un “bel paese” (davvero!), non è come altri paesi che sono odiati.
Se un popolo viene amato c’è un motivo: lo Stato ha lavorato molto bene e ha attuato una politica estera bella a favore degli altri popoli. Ovviamente, l’Italia non può fare più di quello che sta facendo perché non ha mezzi economici per obiettivi maggiori. Ma quello che sta offrendo a Lampedusa e agli immigrati: tanto di cappello. E’ un paese stupendo che fa più di quello che può fare. Non posso dire che bene.
Mi pare di capire che Khalil Gibran è un po’ il suo autore prediletto. Come mai lo appassiona così tanto?
Il suo vero nome è Jibran Khalil Jibran. Gibran (1883-1931) è il mio padre spirituale da quando era bambino: le sue poesie venivano cantate dai cantanti libanesi e ho assorbito il suo linguaggio spirituale nel mio DNA. Ma non solo per questo ne sono talmente appassionato. Era cristiano: lui non ha parlato solo a favore dei cristiani, ma li ha anche criticati perché aiutavano i feudatari, per i matrimoni combinati con i ricchi e i suoi libri sono stati addirittura boicottati al tempo dei Turchi. Poi li hanno accettati solo dopo la sua morte o al massimo poco prima.
La cosa che mi ha però appassionato di più è stato il fatto che ha avuto una vita difficile. Lui è partito da povero emigrato a 11 anni finisce in un quartiere degradato degli USA. Fu l’unico della sua famiglia che studiò ed è stato scoperto da una sua insegnate americana. ha cambiato il nome.
Lui non ha vissuto bene la sua infanzia: ha sofferto parecchio in una vita difficile e travagliata. La madre faceva la venditrice ambulante per vendere amuleti e roba orientale, mentre le sorelle andavano da una sarta a lavorare ed erano malpagate e il fratello diventa commerciante. La morte gli ha portato via tutti, tranne una sola sorella Miriana. Grazie alla sua mecenate, Gibran riuscì a studiare in Francia. Non ha mai vinto premi letterari, solo una medaglia per l’arte, per una competizione non così di eccellente livello, guadagnandosi il 2° posto. Non è mai stato candidato al Nobel e più di 80 milioni di copie sono state stampate del suo libro, “Il profeta”.
Io ho voluto fare un nuovo profeta: c’è un mio libro che si chiama così. Ho scritto la sua vita e ho tradotto tutti i suoi libri, ma alla fine mi sono distaccato. Non ho voluto imitarlo, ma ho voluto creare un nuovo genere di romanziere, poeta e saggista. Sono un allievo che ha preso molto da lui. Mi piace molto il suo linguaggio perché è profondo ed enigmatico: Lui rappresenta gioia e dolore, una lacrima e un sorriso.
Quali sono stati i suoi maestri nel periodo milanese?
Ho avuto, lo confesso, grandi maestri. Primo fra tutti Alfio Rosario Natale. Sono stato come suo figlio adottivo in pratica: lui aveva 85 anni e io andavo con lui a studiare storia. E’ lui che mi ha insegnato a studiare storia e come scrivere, guidandomi in quel campo. Un altro professore è stato Giorgio Costamagna: era capo degli archivisti e mi ha dato una mano notevole a conoscere il mondo della calligrafia. Per la geografia Guglielmo Scaramellini, uno dei massimi esperti in questo campo. Anche lui mi ha aiutato molto a crescere nel settore.
Ho avuto anche molti altri professori. Nel campo della pittura Attilio Uzzo, il grande pittore di Milano e poi il cardinal Ravasi. Ora sono molto amico del rettore dell’università di Pavia, Fabio Rugge, e il preside di facoltà Giovanni Cordini. Non sono propriamente miei maestri, ma qualcosa me la insegnano sempre in maniera indiretta. Tutti abbiamo sempre da imparare.