Fortnite contro Apple

Fortnite contro Apple: cosa è successo e cosa significa

Di schiaffi virtuali tra aziende non se ne vedono tantissimi. Scaramucce sì, frecciatine qui e lì sui social e su Twitter pure – soprattutto quando le aziende sono in qualche modo aziende di show biz, come le squadre di calcio. Ma schiaffi poderosi, diretti, espliciti, alle fondamenta stesse di un brand… Sono una rarità. Ecco perché lo schiaffo che mette Fortnite contro Apple – o meglio Epic Games contro Apple – non può passare inosservato.

Uno schiaffo lungo 48 secondi

Perché è uno schiaffo ad Apple?

Oltre che per le spiegazioni abbastanza chiare a fine video, perché Fortnite ha preso e parodizzato in tutto e per tutto quella che forse è la pubblicità più famosa e identificativa del brand Apple. Un monumento al motto “Think Different”, potentissimo nella sua citazione letteraria alla distopia di Orwell, “1984”, appunto. Lo spot originale è del 1983, diretto da nientepopodimenoche Ridley Scott, prodotto da Apple per essere trasmesso al Super Bowl – con tutto ciò che ne conseguiva in termini di esposizione mediatica –, ed era un attacco frontale alla industry monolitica dell’informatica, capeggiata all’epoca da IBM.

L’originale di Apple, a sua volta un capolavoro

La logica dietro a 1984 di Apple

In pratica, la mela di Cupertino si pone da sempre come il monumento all’innovazione tecnologica col consumatore finale come protagonista – da ben prima dell’iPhone, che è il picco massimo di quella filosofia. I temi fondativi di Apple sono quelli dello user friendly, del design accattivante che ti fa sentire un utente migliore – ma non necessariamente esserlo, complice anche la natura da sempre chiusa dei suoi sistemi operativi, senza nulla togliere alla loro bontà e funzionalità. 

Insomma, c’è un motivo se la mela sui MacBook è a favore di chi guarda l’Apple user e non viceversa, o se gli Apple Store sono moderni templi minimali dalle ampie vetrate da cui essere osservati dai passanti mentre si concludono costosi acquisti, per segnalare molto più banalmente il nostro status di persone smart e probabilmente abbienti. È il marketing, dolcezza, ed è ciò che ci fa pagare gli iPhone quello che costano, rendendoli il prodotto più redditizio di sempre.

Apple Store di Hong Kong
Il tempio del Think Different, in cui sono esposti più i “fedeli” che i prodotti – In foto, l’Apple Store di Hong Kong. Foto da MacWorld.

Ma questa costruzione di un’identità di marca c’è, appunto, da prima del telefono che ha rivoluzionato il mondo. Da sempre Apple strizza l’occhio a innovatori ed early adopters, al mondo creativo più che a quello ingegneristico, a chi risponde molto più alla forma che alla sostanza. Apple da sempre vende prima di tutto l’esperienza lussuosa del “Think Different”. E nel 1983 ha deciso di rendere chiarissimo il fatto che prima di tutto essere “different” era una cosa desiderabile, e che secondariamente era proprio Apple l’emblema del “different”.

Apple Macintosh 128K 1984
Alta tecnologia del 1984 – l’Apple Macintosh 128K. Foto da HWUpgrade.

Per questo, appendersi alla distopia più famosa di tutte, quella scritta da Orwell nel 1948, che guarda caso era intitolata proprio 1984, anno di lancio del nuovo computer Apple Macintosh, era semplicemente tanto semplice quanto geniale. E in effetti si tratta di una delle pubblicità più riuscite di sempre, spot del decennio 1980 per Advertising Age, e oggi ancora una delle pietre miliari della disciplina. Apple a tutti gli effetti si era posizionata come la ribellione contro il Grande Fratello, rappresentato da una sorta di Big Tech ante litteram.

Peccato che 13 anni dopo il lancio del prodotto che più di tutti ha messo Apple in cima all’Olimpo dei produttori di dispositivi elettronici per la persona, ecco, come dire… Apple sia diventata proprio ciò che “combatteva”.

La logica dietro a #FreeFortnite

Quindi cosa ha combinato Fortnite, o meglio Epic Games? Ha preparato il trappolone ad Apple (e pure a Google, a latere, ma poi ci arriviamo). Come già menzionato proprio su queste pagine, Apple ha qualche problema – più che con i suoi dispositivi – con il suo ecosistema di applicazioni. O meglio, i problemini ce li hanno i developers, e in qualche modo è questo il motivo principale per cui l’insospettabile Tim Cook è stato convocato all’antitrust hearing di fine luglio assieme a Bezos, Pichai e Zuckerberg.

In breve, Apple applica una “tassa” del 30% sui ricavi dei developer sull’App Store. Questo significa che se per esempio si comprano su iPhone 10€ di acquisti in-app – cosa tipica dei videogames – alla casa madre dell’app vanno teoricamente 7€, mentre ad Apple vanno 3€. Una sorta di “pedaggio”, controllato dall’ecosistema particolarmente chiuso e restio rispetto alle applicazioni installate al di fuori dell’App Store e dalla gestione dei pagamenti con Apple Pay. Potete immaginare la felicità della community dei developer, che sempre più ha alzato la voce a riguardo, fino a portare fondamentalmente Apple davanti all’antitrust con l’accusa di essere un monopolista.

Tra questi developer c’è anche la casa madre di Fortnite, che però ha deciso di giocare a scacchi molto più di chiunque altro. Nel momento di massima debolezza di Apple in materia, ha orchestrato una trappola in cui Apple è caduta con tutte le scarpe.

Poco prima di Ferragosto, infatti, Epic Games ha deciso di dare ai suoi utenti la possibilità di acquistare dei VBucks – la valuta di gioco di Fortnite – direttamente sul sito di Epic invece che sull’App Store, scontando qualsiasi acquisto proprio del 30%. C’era scritto “trappola” a caratteri cubitali, ma Cupertino cosa decide di fare? Decide di rimuovere Fortnite dall’App Store perché viola le policy concordate – ovvero quelle standard di cui prima, che sanciscono il “pedaggio” da pagare ad Apple.

Tuttavia, come ampiamente prevedibile, Epic Games sapeva perfettamente che sarebbe stata quella la reazione, ed eccoci qui. Parodia dello spot più famoso, un asset incredibile per Apple, un pezzo di storia del brand. Una mela al posto della faccia del Grande Fratello; il personaggetto di Fortnite (scusate sono troppo vecchio per sapere quale sia il suo vero nome) al posto della Apple girl che all’epoca spaccava lo schermo in cui venivano proiettati i minuti d’odio contro i conglomerati informatici. L’assassinio perfetto. Apple è stata legittimamente messa al posto delle stesse aziende a cui si è contrapposta fin dalla nascita.

Apple come Grande Fratello nella pubblicità di Fortnite
Apple come il Grande Fratello di Orwell. Wow.

E in aggiunta a questa analisi “narrativa”, ecco anche una vertenza legale che lamenta appunto il comportamento predatorio di Apple sull’App Store, comunicata semplicemente con un pdf su un tweet dal profilo ufficiale del gioco.

Tweet Fortnite di azione legale contro Apple
Fucks given: zero. Tweet originale.

Cosa potrebbe non tornare del tutto

Certo è che ci sono dei retroscena e delle ipotesi, oltre che delle possibili incongruenze. Per esempio: il fatto che Epic Games sia per il 40% di Tencent, azienda cinese proprietaria di WeChat, vittima dello stesso ban di TikTok, può in qualche modo influire sulla faccenda? O ancora: l’utenza di Fortnite è troppo giovane per capire la reference allo storico spot Apple, quindi a chi è rivolto? E infine: perché con Apple c’è stato uno scontro così frontale mentre con Google pare non sia successo niente, anche se i problemi di App Store e Play Store sono identici?

La pista geopolitica

Come detto, Tencent detiene il 40% circa di Epic Games. La stessa Tencent è l’azienda cinese dietro a WeChat, che in Cina è una versione ibrida di Whatsapp, Facebook e Amazon sotto steroidi per potenzialità e pervasività. Tencent, come ByteDance con TikTok, è stata vittima del ban di Trump. Apple rappresenta il teorico punto di riferimento dell’ecosistema privacy-oriented, essendo da sempre chiuso e non basandosi in alcun modo su ad revenue per stare in piedi.

Unendo i puntini: se fosse l’inizio dell’attacco a tutta una industry e, a latere, a tutta una industry orientata in un modo che non piace al modo di fare business delle aziende cinesi? Improbabile, ma sapendo che proprio Tencent ha chiuso un accordo per lo sviluppo di una piattaforma di mobile gaming con Huawei, la prima testa caduta in questo mondo per motivazioni geopolitiche, è legittimo tenere d’occhio anche questa pista.

La perplessità demografica

Avete presente l’utente medio di Fortnite? Quanti anni ha più o meno? Non ho ovviamente i dati, ma penso che sia ragionevole pensare al seguente archetipo: il vostro vicino spocchioso di anni 12 che passa più o meno 5 ore al giorno davanti alla PS4 e scassa i cosiddetti ai genitori per shoppare con la loro carta di credito. 

La domande quindi sono due:

  1. Uno che mediamente nel 1984 avrebbe dovuto aspettare ancora 18 anni per nascere, come fa a ricordare o anche solo ad aver presente una pubblicità pensata per il mercato americano di metà anni Ottanta che fa riferimento a un romanzo distopico del 1948?
  2. Uno che a Fortnite non ci gioca sull’iPhone o sul cellulare, ma comodamente a casa sua sul divano su piattaforma Sony, come fa a notare che Fortnite è stato tolto dall’App Store?

Se vi siete già dati la risposta, bravi. Altrimenti: è evidente che questa mossa non è pensata per l’utente medio di Fortnite. La mossa è mediatica e di business. La mossa è pensata per far rumore fuori dalle nicchie puramente di gioco. La mossa è nello stesso filone dei concerti di Travis Scott, Steve Aoki o Deadmau5, sul gioco che ci ha regalato un esercito di zombie che per un pezzo ci hanno deliziati con scenette idiote tipo quella che segue, fatta gratuitamente per esultare dopo un gol in finale nei mondiali 2018 da uno che piglia qualche milione all’anno per giocare a calcio a quei livelli.

La mossa ha un impatto prima di tutto culturale, in ultima analisi. Fortnite guida una battaglia che forse ossigenerà il mercato in questione più di un antitrust hearing, o che comunque potrebbe portare alla riduzione di comportamenti predatori da parte di Apple o chi per lei rispetto ai developer. Non è pensata per i suoi utenti: è pensata per il mondo che sta guardando questo duello in prima fila – lo stesso che usa da 22 anni Unreal Engine come motore grafico per i suoi giochi (sviluppato da Epic Games e usato dalla stessa Apple per alcune cose).

I due pesi e le due misure: con Google come finisce?

Ok, bello tutto con Apple, e bella pe Fortnite. Ma Google quindi? Con Google è successa più o meno la stessa cosa ma senza il boom di una pubblicità che incenerisce un tuo tema fondativo. E non solo perché non c’era una pubblicità da parodizzare, ma anche e almeno per un paio di dettagli: il sideloading possibile e il futuro del gaming su Android.

La prima motivazione è presto spiegata: sui dispositivi Android è molto ma molto più facile installare applicazioni da store esterni o addirittura file apk scaricati da qualsivoglia sito internet – non senza qualche banner di sistema allarmante, va detto, ma in ogni caso l’utente più sgamato sa che non c’è poi molto da temere. Fortnite era già entrato in ritardissimo (aprile 2020) su Play Store proprio per motivazioni di taglio dei ricavi, salvo poi ritornare su suoi passi proprio a causa di tutti quei banner di sistema di cui parlavamo prima. In ogni caso, chi voleva aveva modo di installare comunque Fortnite senza passare per Play Store, cosa invece pressoché impossibile su Apple.

La seconda motivazione è più di rispettivo posizionamento di Google e di Apple rispetto all’industria del gaming. Da quando mondo è mondo c’è una cosa che Apple non sa fare: la piattaforma game-friendly. I gamer sanno che non possono prendersi un computer Apple. Apple per il resto riesce a essere solo gatekeeper rispetto all’industria del mobile gaming, ed è molto gelosa di questa sua posizione, sapendo di non essere storicamente in grado di svilupparsi i giochi (o le piattaforme di gioco) da sola – il primo che mi tira fuori Apple Arcade vince la mia risatina sarcastica. Insomma, son due mondi che si guardano in cagnesco

A contribuire a ciò, c’è il comportamento tenuto da Apple con un po’ tutti gli altri servizi di gioco cloud-based, tipo quelli di Microsoft e Google, che appunto sfuggirebbero al controllo (e al pedaggio) dell’App Store. Microsoft e Google infatti hanno sviluppato piattaforme di gioco in streaming all-you-can-play un po’ più complete e ben fatte rispetto al già citato Apple Arcade – rispettivamente Microsoft xCloud e Google Stadia – che, Apple l’ha già dichiarato, non troveranno mai spazio su iOS. Il problema è che queste dichiarazioni hanno sollevato le aspre critiche non solo dei diretti interessati, ma anche di tutta la scena opinionistica tradizionalmente favorevole ad Apple (Macworld, AppleInsider e John Gruber tra gli altri).

Insomma, la natura open di Android che permette di installare app di terze parti con relativa facilità e l’entrata di prepotenza da parte di Google nell’industria del gaming con Stadia – che teoricamente è un prodotto potenzialmente più interessante rispetto ad Apple Arcade – stanno salvando Mountain View dall’attacco frontale che invece sta subendo Apple, giusto o sbagliato che sia.

Come finirà

Chi lo sa. Di solito a dire che non cambierà sostanzialmente nulla si azzecca 95 volte su cento, con colossi di questo calibro. Ma il cocktail di antitrust hearing, perdita della bussola dentro Apple in termini di mission, innovazione di prodotto (in primis) e customer care (ancora di primissima fascia, per carità), e rivolta degli sviluppatori potrebbe creare grossi problemi alla mela morsicata.

Ma chi lo sa. Intanto tiriamo fuori i pop corn, perché probabilmente nella battaglia tra Fortnite e Apple nessuno dei due contendenti abbasserà la testa.

Thomas Siface